La Stampa, 27 aprile 2017
La cucina thailandese senza noodle e bacchette
Fa comodo a molti credere che i doni li abbia sempre portati un vecchietto vestito di rosso sulla slitta della Coca-Cola, ma nessuna nonna ricorda questa tradizione, e a me interessano proprio le nonne. Come quella di Poom, che non ha mai sentito parlare di «noodle soup». Sono stati i cinesi a inserire bacchette e spaghetti in brodo nel menu di un popolo come quello thailandese che mangiava con mani e cucchiaio, e che non si è mai sognato di cuocere delle tagliatelle in latte di cocco, lime e coriandolo. Il popolo si nutriva di brodo, verdure e riso, ma la cucina di corte era un gioco intellettuale di contrasti e assonanze tra i gusti dolce, piccante, salato, acido e amaro. Lo zucchero di canna smorza il peperoncino, la pasta di pesce essiccato incontra la freschezza del tamarindo e della combava, e la melanzana cruda pestata aggiunge una nota di fiele. I cinque sapori convivono nella stessa preparazione accanto a erbe profumate, spezie e paste di curry, e vengono spente da un riso bollito aromatico, dai chicchi piccoli e teneri. Ma le cose sono molto più complesse. Ogni commensale deve alternare sapientemente piccoli assaggi dei vari piatti in quantità e ordine tali da creare in bocca una danza di sapori, interrotta da sorsi regolari di una zuppa agro-piccante. Si tratta di arte, filosofia, mistica, che gli stessi siamesi, aderendo al consumismo Usa, hanno archiviato, con conseguenze irreversibili sul gusto, sul peso, sulla salute e sulla felicità.
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