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 2017  aprile 27 Giovedì calendario

Claudio, il genio che creò l’opera

Il musicista chiamato a suo tempo “il divino Claudio” appartiene senz’altro ai vertici del patrimonio spirituale italiano. Ma, pur nella sua unicità, Monteverdi non è purtroppo riuscito a rendere pleonastico il cognome – come Dante, Leonardo, Michelangelo o Galileo – anche se i suoi meriti di compositore eguagliano quelli dei massimi geni nazionali delle età lontane. Egli fu nientemeno che il primo grande operista della storia, il musicista che creò di fatto l’opera, forma destinata a una fortuna straordinaria, emblema stesso del Bel Paese. Senza l’esempio dei suoi capolavori non si sarebbe sviluppato un genere che, attraverso Cavalli, Lully, Purcell, Händel, Pergolesi, Mozart, ha portato a Rossini, Verdi, Wagner, Puccini, Berg.
L’evento teatrale da lui creato nel primo Seicento suscitò subito un entusiasmo tale che, da sfarzoso intrattenimento privato per famiglie nobili qual era in origine, divenne un seguitissimo spettacolo a pagamento, esportato e in seguito imitato in tutto il mondo. La vita della più coinvolgente forma teatrale ha ormai superato il giro di boa dei quattrocento anni e continua a sopravvivere, pur essendo da sempre un lusso in apparente perdita economica.
Si celebra quest’anno il quattrocentocinquantesimo anniversario della nascita del nostro “Claudio”. E Cremona, città in cui nacque il 9 maggio 1567, lo festeggia con una grandiosa edizione del Monteverdi Festival, tra il 5 maggio e il 24 giugno. Programmati L’Orfeo, primo sommo esempio di teatro interamente musicato, diretto da Ottavio Dantone, e Il Vespro della Beata Vergine, misterioso monumento della musica sacra, diretto da John Eliot Gardiner. Andranno in scena anche i madrigali drammatici Il ballo delle ingrate e Il combattimento di Tancredi e Clorinda, con le Marionette Colla, oltre a concerti del barocco vocale e strumentale, con specialisti della musica antica come Jordi Savall, Fabio Bonizzoni, Rinaldo Alessandrini (reduce dalla splendida trilogia monteverdiana alla Scala con la regia di Robert Wilson) e molti altri. C’è persino uno spettacolo con regia di Valter Malosti, eseguito dal gruppo Sentieri Selvaggi diretto da Carlo Boccadoro, per Variazioni sull’Orfeo, sul mito musicale per eccellenza, con cui iniziò la storia dell’opera.
Gli informati ricordano infatti che il teatro cantato ebbe avvio nell’estremo Cinquecento con una Daphne di Jacopo Peri e la doppia proposta di un’Euridice dello stesso e di Giulio Caccini. Era il tempo del “recitar cantando” della Camerata fiorentina, detta De’ Bardi. Ma Monteverdi comprese presto che una recita tutta cantata, per non risultare una soporifera lagna, aveva bisogno di differenziarsi in arie, ariosi, ariette strofiche, cori, duetti, balli, con ritmi variati e strumenti diversi che accompagnavano, a seconda dei personaggi e delle emozioni suscitate dal testo. Bisognava “movere gli affetti”, come si diceva allora. E puntare soprattutto sugli “affetti estremi”: grandi gioie e dolori.
Monteverdi divenne operista un po’ per caso e fu un’attività fra le altre, come la pittura per Leonardo da Vinci. Lui era in origine madrigalista, dal 1592 al servizio di Vincenzo Gonzaga alla corte di Mantova, con la quale fece viaggi in Ungheria e nelle Fiandre, come suonatore di viola da gamba e compositore.
Il suo precoce genio innovativo divenne presto oggetto di critiche da parte di colleghi mediocri e invidiosi. Contro la sua musica scrisse un intero saggio un certo Giovanni Maria Artusi, in cui il canonico bolognese denunciava le “imperfezioni della musica moderna”, citando alcuni suoi passi. La fama di un Monteverdi “troppo moderno” si diffuse in modo tale che lo stesso Giuseppe Verdi, che non ne conosceva la musica (in massima parte sconosciuta nell’Ottocento e riesumata all’inizio del Novecento da Gian Francesco Malipiero), ne sconsigliava lo studio “per sentito dire”, poiché troppo ricca di licenze armoniche.
La polemica con l’Artusi si protrasse per cinque anni, fino al 1605, quando Monteverdi fece esporre il suo punto di vista in uno scritto a firma del fratello. Nei secoli precedenti, spiegò, l’armonia era “padrona dell’orazione”, ovvero l’intricata polifonia fiamminga inglobava entro le sue spire le parole, senza badarci troppo. Nella “moderna prattica” (sic), invece, l’armonia è “serva dell’orazione”: in sostanza, se il testo lo pretende, le note devono piegarsi alle esigenze dei contenuti, rendere le emozioni dei concetti, sottolineare il realismo delle passioni. E la musica, al servizio del puramente umano, non può certo seguire le regolucce scolastiche di un manuale di contrappunto. Monteverdi era famoso per diversi madrigali dotati di un piglio amoroso piuttosto esplicito, con sospiri, lamenti e baci mordaci ( la Repubblica ne distribuì nel 2002 un cd, come 5° volume della serie “Sabato musica”, intitolato appunto Madrigali erotici), oppure scene musicali narranti dinieghi di ninfe crudeli, indifferenti all’infuocato strazio di innamorati supplici. Quando venne messo alla prova de L’Orfeo – la storia del mitico cantore che in-canta le potenze dell’Ade per riprendersi la sposa Euridice, defunta per il morso di un serpente – fece centro. Scritto per l’aristocratica Accademia degli Invaghiti ed eseguito a Mantova nel carnevale 1607, iniziò a girare il mondo. L’anno dopo gli fecero musicare L’Arianna, prima opera a sfondo tragico, sebbene a lieto fine, per festeggiare le nozze tra Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia. Fu di nuovo un trionfo, con platee commosse fino alle lacrime. Per ringraziamento, quattro anni dopo, Monteverdi, vedovo e con tre figli da allevare, venne licenziato dal successore del suo protettore Vincenzo Gonzaga. E lui, dopo aver tentato un’assunzione al Duomo di Milano, nel 1613 divenne maestro di cappella della basilica di San Marco a Venezia. Scriveva musiche religiose e continuava a pubblicare libri di madrigali.
La musica, tra il Rinascimento e il primo Barocco, era cambiata: non più polifonica, ma fatta di melodie accompagnate dal basso continuo. Lui era ben pagato come responsabile delle musiche di chiesa, ma il tarlo dell’opera lo rodeva: mandò in scena una Proserpina rapita a Venezia, poi andata perduta. Nel 1632, lo ritroviamo tardivo sacerdote, e qualche anno dopo, nella licenziosa Venezia, nasce l’opera pubblica, con musicisti che imitano il suo canto per voce sola. Agli impresari non basta la riproposta veneziana dell’Arianna nel 1639, il cui manoscritto è oggi scomparso, a parte il lamento della protagonista Lasciatemi morire. Dall’ormai ultrasettantenne “Don Claudio”, gli organizzatori di spettacoli vogliono altri titoli, malgrado lui lavori a tempo pieno per San Marco. Avranno un Ritorno di Ulisse in patria, le perdute Nozze di Enea e Lavinia e soprattutto La coronatione di Poppea, capolavoro tra capolavori, prima “opera storica” con personaggi realmente esistiti, anziché i soliti miti greci. Ci è fortunosamente pervenuta in una copia non originale, ritoccata e integrata da altri autori.
Per essere un prete-operista a tempo perso, non era stata male l’intuizione di marketing di scegliere la vicenda della chiacchierata arrampicatrice sociale che, per diventare imperatrice, si lavora a letto la debole carne del tirannico Nerone. Dopo i madrigali voluttuosi, l’opera osé di denuncia del dispotismo. Staccare molti biglietti al botteghino era consigliabile anche agli esordi del genere melodrammatico.