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 1979  marzo 31 Sabato calendario

Biografia di Umberto Melnati

Umberto Melnati, Livorno 17 giugno 1897 – Roma 30 marzo 1979

Melnati viveva, ormai lontano dai «set» cinematografici e dai palcoscenici, in una casa gentilizia nel cuore della  vecchia Roma. In quella casa aveva raccolto i ricordi della sua carriera. C’era perfino un lungo corridoio ingombro di bauli: era il «segno» di un certo tipo di vita teatrale, quella che  aveva coinciso con i decenni del suo successo, gli anni ’30 e ’40. «Il baule era la nostra villa con piscina – disse l’attore in  un’intervista —: sempre in giro con la compagnia tutto l’anno, nessun attore possedeva una casa. I nostri averi ci seguivano ovunque nei bauli. Era  divertente. I figli nascevano e i  vecchi morivano dove la compagnia si fermava».
Lui, per esempio, era nato a Livorno nel 1900 (secondo qualche altra fonte nel 1897), figlio di due attori, Gino Pietro Melnati e Marcella Conti (con cui in seguito recitò spesso). E, nel rispetto della leggenda, fu un «pargolo d’arte». Dopo nove giorni di vita la compagnia cambiò piazza e lui segui i  destini polverosi e variopinti  delle tourneés. La sua prima parte fu quella di un neonato, poi ebbe i primi ruoli infantili,  specializzandosi nelle parti di «bambina», tanto che le  Cassandre dicevano  scherzosamente che sarebbe diventato una seconda Duse.
Questi particolari riguardano non solo il personaggio, ma anche l’attore: un modo di  essere professionista imparato giorno per giorno sul  palcoscenico, spiando le reazioni del pubblico, le risate e i groppi in gola. Melnati non fu certo una creazione dei «registi», né in teatro, né in cinema (a parte Copeau che lo diresse nel 1938 in una edizione di Come vi piace di Shakespeare al Maggio  fiorentino) allora non si usava il regista. Fu un attore «in sintonia» col pubblico, e con un certo tipo di pubblico  particolarmente attratto dallo  spettacolo di evasione, dalle «due ore per dimenticare i problemi  della vita quotidiana» che Melnati offriva, incastrando  sapientemente le sue doti naturali. Un viso mobile, che diventava  facilmente maschera con un guizzo degli occhi; una  recitazione convulsa, pettegola, con una parlata stridula che ben si adattava al gusto della  battuta, anche inventata al momento. Un attore da vaudeville, da pochade, da gioco degli  equivoci, nel microscosmo di una realtà e di un ambiente piccolo borghesi, come dettava la  legge dello spettacolo italiano  negli anni ’30 e ’40. Melnati. in questo senso, a parte le sue personali qualità di attore, fu un prodotto di quella società, cui regalava slogan di piccolo buonumore («se potessi avere mille lire al mese...»), duetti pseudo-saggi (era lui che con De Sica aveva coniato la frase «dura minga, non può durare») e comici («Lodovico sei dolce come un fico...»), incastri  sentimentali che imponevano il lieto fine. Un attore «fuori» dalla realtà, in questa misura; ma per la stessa ragione tutto inventato dal di dentro, con giochi espressivi, ammiccamenti, arguzie e furbizie imparati e calcolati al millesimo.
Melnati passa alla storia dello spettacolo come attore  brillante, che fu il «ruolo» dal  quale non seppe discostarsi (a  parte qualche caso, come il borghese gentiluomo interpretato nel 1946 a Roma), fin da quando iniziò la carriera entrando a sedici anni nella compagnia di Tina Di Lorenzo e Armando Falconi. Recitò poi con i  maggiori attori dell’epoca, sia da protagonista, sia ritagliandosi caratterizzazioni a tutto tondo. Fu in palcoscenico con la Borboni, con il famoso gruppo di «Za Bum» creato da Mattòli, con Cimara, la Adani, in spettacoli quasi sempre detti  «leggeri», ma in realtà assai «pesanti» per chi doveva  conservare quotidianamente il ritmo, lo stile, il brio di un teatro comico o ironico. Recitava  testi di Falconi, Biancoli, Fraccaroli, lungo una traiettoria che arrivava fino a Labiche e a Roussin, passando attraverso La zia di Carlo.
Ma indubbiamente il suo più grande successo fu Due dozzine di rose scarlatte un «classico» di Aldo De Benedetti interpretato nel 1936-37 insieme a Vittorio De Sica e a Giuditta Rissone (che erano marito e moglie) in una compagnia  affiatatissima che solleticò il gusto di un vasto pubblico per molti anni. Il successo fu tale che il cinema, ossia un più vasto mezzo di comunicazione, si impossessò poi sia di Melnati sia di De Sica, utilizzandoli in una simile tipologia di personaggi d’evasione, che facevano la forza dei film dei telefoni bianchi, sogni di segretarie e galantuomini che il  neorealismo avrebbe poi spazzato via.
Da Due cuori felici (1932) di Negronl a Rose scarlatte di De Sica, Melnati fu l’interprete congeniale di questi film  sentimentali che egli arricchiva con una sorta di spirito grottesco che forse qualcuno avrebbe potuto meglio utilizzare se, dopo gli anni ’50, egli non fosse stato pressoché dimenticato. Fra i suoi film più celebri, Mille lire al mese e La canzone del sole di Meufeld, La segretaria per tutti di Palermi, Il signor Max di Camerini, dove faceva la macchietta del viveur futile e ozioso contrapposto al cuore semplice del suo partner ideale, De Sica, con cui formava una coppia perfetta. Poi la civiltà dello spettacolo e i suoi modi espressivi avevano fatto una svolta, e Melnati ne era  rimasto fuori, non capiva le «cose strampalate» dei registi  moderni. Prima di dedicarsi alla radio e al video, fece, nel 1952, con Adriano Rimoldi e Milly Santerellina, con cui concluse la sua esperienza di capocomico. Nel 1954 aveva scritto un libro autobiografico, Così per ridere.