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 2017  marzo 28 Martedì calendario

Vincenzo Mantovani, decano dei traduttori

Non gli importa niente di Facebook e tantomeno di Twitter. Non ha nemmeno un cellulare.
Vincenzo Mantovani, uno dei più longevi e proficui traduttori letterari dall’ inglese, ha dato voce sulla pagina a centinaia di autori, da Philip Roth a Faulkner, da Hemingway a Malamud a Mark Twain a Kurt Vonnegut, e innumerevoli altri. Ha superato l’ ottantina e dimostra vent’ anni di meno.
Centinaia di volumi tradotti (e magari ritradotti a distanza di decenni), è noto soprattutto per aver trasposto in italiano gran parte dell’ opera di Philip Roth, l’ autore de Il lamento di Portnoy e di Pastorale americana. Mantovani è approdato a Milano da Ferrara, dove aveva compiuto studi classici, fresco di una laurea in giurisprudenza (mai utilizzata) e della conoscenza della lingua inglese. «Avrei voluto fare il giornalista» racconta, «ma a Milano ho conosciuto Erich Linder, l’ agente letterario più importante di allora, a cui avevo scritto una lettera. Io ero stato qualche mese a Londra, lavorando e perfezionando il mio inglese scolastico.
Mi ha messo alla prova con qualche pagina di Faulkner. Poi mi ha presentato alle redazioni delle maggiori case editrici».
Primo libro tradotto?
«È stato I hear voices di Paul Ableman, ora dimenticato. Il titolo in italiano era Odo voci. Dopo tre libri, visto il mio carattere un po’ spigoloso, ho avuto un battibecco con un redattore e sono passato a Einaudi».
Erano tempi gloriosi
«Sì. Il 1960. Sono andato a Torino e sono stato presentato a Carlo Fruttero, allora semplice redattore. Mi ha affidato un libro senza neanche farmi un provino. Mi ha dato Budd Shulberg, I disincantati, una vita romanzata di Fitzgerald. Fruttero era un grande maestro.
Andavo a pranzo con Italo Calvino. Avevo scritto a Vittorini, che però non ho mai incontrato. Parlavo invece con Luciano Foà, che fu poi tra i fondatori di Adelphi. Anche lì devo aver avuto qualche battibecco. Ma nel frattempo avevo conosciuto mia moglie Anna, che prima lavorava in banca, poi ha fatto per anni la modella per la pubblicità e poi la doppiatrice per la Rai.Lei è quella che ha guadagnato di più in famiglia».
E a Milano chi frequentava?
«Ho conosciuto bene Luciano Bianciardi, che traduceva tantissimo. Lui non è stato un maestro, ma un amico e un modello. In quel momento stava scrivendo La vita agra. Non abitava più a Brera, ma in via Domenichino. Andava al Giamaica con il gruppo dei fotografi bohémien come Dondero e Mulas. A casa sua ho incontrato Carlo Ripa di Meana, il primo a leggere il suo manoscritto. Bianciardi stava con Maria Jatosti, pur avendo un’ altra famiglia a Grosseto».
È vero che Bianciardi fu licenziato da Feltrinelli per scarso rendimento?
«Non credo. In realtà lui voleva scrivere i suoi romanzi, e per campare traduceva, dal letto dettava il testo a Maria. Aveva appena avuto il secondo figlio, Marcellino. Diceva che i traduttori sono tutti dei disadattati. In effetti alcuni per lo stress si suicidavano, come Bruno Tasso».
Di che cosa parlavate, di libri, di cultura?
«No. Lui parlava molto volentieri di donne. Di avventure. Arrivavo a casa sua per cena e non c’ era niente di pronto. In compenso lui aveva messo gli occhi sopra mia moglie».
Era un autodistruttivo?
«A quel tempo no. Dopo il successo de La vita agra, e il minor successo dei libri successivi, ha fatto un errore grossissimo: ha comprato casa a Rapallo e là si sentiva solo, isolato. Da quel momento ha cominciato a bere molto. Sono andato a trovarlo all’ ospedale quando era ridotto malissimo, il fegato non reggeva più, e la Maria l’ aveva anche mollato, se n’ era andata a Parigi».
Con chi altri ha avuto a che fare?
«Con Enzo Biagi. Mi tirò dentro alle sue iniziative editoriali, faceva volumi a dispense, sulla storia, i personaggi illustri, eccetera. Lavorai due-tre anni solo per lui. Aveva creato una redazione ad hoc, c’ erano anche Guido Gerosa e Milani.
Un’ enorme massa di notizie inutili, diciamocelo. Biagi s’ incazzava subito, bastava un minimo ritardo. Una volta ci mettemmo d’ accordo fra noi: ognuno firmò il suo testo “Enzo Biagi”. Non la prese bene. Ma io avevo una visione sua di riciclatore di materiale, la stessa cosa la metteva nel romanzo storico, in radio, in televisione, facendosela pagare ogni volta».
È cambiata la lingua rispetto ad allora?
«Le traduzioni invecchiano, vanno rinfrescate. Oggi molte parole, come “network”, si lasciano in inglese».
Quali autori ha conosciuto di persona?
«Pochi. Una volta Doris Lessing fece una scenata isterica pazzesca perché le avevo chiesto alcune precisazioni su un suo testo. Da allora, alla larga. Invece mi è molto simpatico Richard Ford, che spero di incontrare presto».
La sua visione dell’ editoria di oggi?
«Mah. Ho tradotto e ritradotto per Einaudi gran parte dell’ opera di Philip Roth. Ho iniziato nel ’97, affiancato da Norman Gobetti, e ho finito nel 2014. Poi l’ Einaudi mi ha messo da parte. Le concentrazioni vanno a tutto danno degli autori. In compenso c’ è una buona tenuta delle piccole case editrici come Marcos y Marcos, o Sur, o la recente Racconti Edizioni. E Calabuig, che ha appena pubblicato Golk, di Richard Stern. Se invece prendi, per dire, la collana Stile Libero di Einaudi trovi tanta fuffa».