Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  marzo 28 Martedì calendario

Totò, il principe senza eredi della commedia umana

Quando non fu più in grado di difendere tutta la solitudine fieramente sventolata per decenni: «Mangio più volentieri con un cane che con un uomo» Antonio De Curtis dovette arrendersi all’affetto. 15 aprile 1967, giorno del funerale, in piazza scese un intero Maracanà. Trentamila persone a Roma, centocinquantamila a Napoli, solo 48 ore più tardi. Il feretro oscillante, la bombetta in precario equilibrio sulla bara, la gente con il naso all’insù ad aspettare un segno, a inseguire un sogno. Quel giorno il sangue di San Gennaro, proprio come il legame dell’Italia con Totò, non si sciolse. E il miracolo, a cinquant’anni dalla dipartita del principe della risata, ha qualcosa di regale. Senza eredi, senza epigoni e senza discendenti, Totò ha fatto scuola dimenticando però di rivelare agli alunni il segreto che permettesse di veder tramandata la lezione. Abbiamo avuto interpreti grandissimi dell’italianità sullo schermo e sul palco (Gassman, Mastroianni, Sordi, Troisi), ma nessuno che come Totò ricordasse Chaplin.
L’OSTRACISMO
Un Chaplin di retroguardia, un parente considerato a lungo e con pieno torto, povero di talento e contenuti. Dopo, a lacrime già asciugate, la riconsiderazione critica è più facile e in vita, come in patria, profeti non si è mai. Quindi in attesa delle celebrazioni previste per omaggiarlo, ricordare l’accanimento di una certa critica, la stessa che considerava Sergio Leone un regista di serie B e che all’attore imputava troppi film sciatti e alimentari, non è inutile. Il Totò che si spense a 69 anni nella sua casa romana di Via Monti Parioli, era stanco, malato e avvilito. Poche ore prima di andarsene, aveva confessato al suo autista, Carlo Cafiero di sentirsi: «Una vera schifezza». Sull’afflizione pesava anche un bilancio ferocemente autocritico, la sensazione di non aver sfruttato fino in fondo il proprio talento, una certa misantropia di fondo: «A me non piace andare nei night, non mi è mai piaciuto. Quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone si nasconda un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato». Non c’è grande spirito comico che non abbia avuto indulgenza per la malinconia e non c’è grandissimo attore (basti pensare al Gassman disperato degli ultimi anni, chiuso in camera a graffiare la porta dellapropria stanza) che per dirla con Bergman, non abbia fatto i conti con la depressione, con l’ora del lupo, con il buio che all’improvviso viene a farti visita. Ma con Totò, la mancata aderenza tra messa in scena e vita vera, creava un corto circuito.
UN CARATTERE UNICO
C’era scetticismo, pigrizia, consapevolezza profonda e sorprendente del peso dell’esistenza. Anche pigrizia, forse: «Viaggiare? Che m’importa di viaggiare?- disse a Oriana Fallaci- un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini sono tutti uguali, i caporali sono tutti uguali». In mancanza di uomini maiuscoli, meglio i suoi duecentoventi cani da sfamare. In assenza di passione per la velocità, meglio la lentezza: «Io ho l’automobile, ma ho un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. A me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino...» Perché Totò in fondo era questo. Un buono e un puro a cavallo di un’epoca che iniziava a diventare molto cattiva. Un genio che raccontava la propria epoca e a quell’epoca, era totalmente estraneo.
SOBRIETÀ
Non gli piacevano le ostentazioni (meglio le invenzioni, anche quella molto dibattuta sulla veridicità dei natali nobiliari) e men che mai apprezzava la protervia: «Caporali sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti...». Chissà cosa avrebbe detto oggi, Totò. Adesso che nessuno osa più mettere in discussione la luce abbagliante delle sue smorfie, l’unanimità si confonde con la melassa e neanche i filosofi dell’inscindibilità tra privato e politico del personaggio pubblico, si azzarderebbero mai a rinfacciargli- forse per sospetto di anacronismo- la frase pronunciata di fronte alla figlia Liliana nell’imminenza dell’addio: «Ricordatevi che sono Cattolico, Apostolico e Romano». Quando gli domandarono se si apprezzasse,se si riconoscesse un ruolo, fu definitivo: «Totò mi sta antipatico. Quando mi vedo, il che capita assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, penso: Gesù, quanto è antipatico, quello. Mentiva, ma anche se avesse detto il vero, non gli avrebbe creduto nessuno.