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 2017  marzo 28 Martedì calendario

«Streghe e balli, ho vissuto come in una fiaba dei miei zii»: Intervista a Helga Margarete Grimm

Ti aspetti di incontrare la classica nonnina delle favole, tremante e indifesa. E invece ti imbatti in una donna che dimostra dieci anni di meno rispetto ai suoi 82 anni, beve acqua tonica e si fa prendere in giro dal marito e dal nipote con l’ironia e l’intelligenza di chi sa tenere unite le famiglie. Helga Margarete Grimm è così, più realistica che fiabesca. È l’ultima discendente dei «signori delle fiabe», i due fratelli Jacob e Wilhelm che, all’inizio dell’Ottocento, rielaborarono le storie della tradizione popolare nella raccolta di favole che tutti noi abbiamo letto. Quella che riunisce Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola, Hansel e Gretel, Pollicino, Rosaspina (la Bella addormentata nel bosco), il Pifferaio magico. 
Sarà questione di dna, ma la vita di Helga è degna di una storia dei Grimm, con tanto di rocambolesche fughe dai cattivi, matrigne, baci rubati da un principe (siciliano), balli in abito lungo e colpi di scena a un passo dal lieto fine. Tra un’avventura e l’altra, sono andati persi i bauli che contenevano i manoscritti delle fiabe, i documenti e perfino le bozze del vocabolario che elesse «zio Jacob» a padre fondatore della lingua tedesca. Negli scaffali di casa oggi resta solo un libro di favole in un’edizione degli anni Ottanta, nemmeno tanto particolare, e un libretto di famiglia che racconta di nascite e discendenze riportate in bella calligrafia ma che non va oltre il 1840. Eppure, in quella villetta di Rieti, dove Helga vive con il marito Guglielmo, c’è un qualcosa di magico.
Signora Helga, sarà il capanno di legno in mezzo agli alberi, sarà il pozzo antico, ma nel suo giardino si respira un’atmosfera da favola. 
«Pensi che avevo anche i sette nani nel prato, sa, per i nipoti. Da un po’ di tempo li abbiamo ritirati in garage».
Ma a Rieti si sa che lei porta il cognome dei più grandi fiabisti di tutti i tempi?
«Non credo lo sappia nessuno. Qualcuno me lo ha chiesto quando sono stata ricoverata in ospedale: Grimm? Quei Grimm? Ma io ho risposto: chissà, forse. Di solito uso il nome da sposata, Scianna».
Nel 2013, a due secoli dal libro di fiabe, è stato celebrato l’anno dei Grimm, con eventi e pubblicazioni. Ne sapeva nulla?
«Ho letto qualcosa ma nessuno mi ha mai contattata».
E lei non si è fatta molta pubblicità.
«Io? Nein. Ho letto le favole come tutti voi, su libri qualsiasi. Purtroppo tutto il materiale importante è andato perso e della storia della mia famiglia mi resta solo il cognome».
Come mai è andato tutto perso?
«Sa, c’era la guerra. E poi quando la mia famiglia è scappata da Berlino Est abbiamo lasciato tutto là. Siamo riusciti a portare poche cose su un carretto di legno con cui attraversavamo il filo spinato che divideva la città. Passavamo di notte sperando che i soldati non ci vedessero. La città era stata rasa al suolo».
Altro che favole, c’era la pelle da salvare?
«Nel vero senso della parola. Pensi che, alla fine della guerra, i russi occuparono le nostre case. Noi abitavamo vicino all’aeroporto perché papà era un ufficiale della Lufthansa. Siamo stati costretti a ospitare un militare russo e la sua famiglia. Fortunatamente lui con noi era buono ma per questo lo uccisero. I russi ci rubarono tutto, a scuola cacciarono i nostri insegnanti minacciandoli col fucile e costrinsero noi bambini a imparare il russo. E poi fecero strage di donne, le squartavano anche se erano incinte».
Come siete scampati alla strage?
«Quando ci fu l’occupazione, mio padre mi prese e mi legò nella cappa del camino. Restai lì per un giorno intero, al buio. È capitato anche che ci nascondessimo sugli alberi e per sopravvivere ci siamo nutriti di cortecce. Ricordo che i russi, tutti mongoli, barbari, non avevano mai visto un bagno con il water e lo usavano per lavare le patate tirando l’acqua. Ma quando le videro sparire nello scarico accusarono mio padre di averle rubate».
Un’avventura degna di un libro.
«Ah, se è per questo la mia prima avventura è cominciata molto tempo prima: quando avevo solo sei mesi di vita ho viaggiato a bordo del dirigibile Zeppelin. Nemmeno due anni dopo ci fu l’incidente». 
Insomma, lei ha incrociato i principali eventi storici.
«E questo è solo l’inizio. Quanto tempo ha?»
Mi metto comoda. Mi racconti: c’era una volta Helga...
«.. che da ragazzina amava disegnare e dipingeva tanti quadri. Tanto che, quando viveva a Berlino Ovest, frequentò la scuola professionale di grafica e progettò il marchio di Interflora, l’azienda che da poco era nata per consegnare i fiori nei principali paesi».
Disegni, fiori. Manca il principe azzurro e sembra che siamo già vicini al lieto fine.
«Eh no, la storia è ancora lunga. In realtà proprio negli anni degli studi mi sposai e rimasi incinta. Ma quello non era affatto il principe azzurro. Era un irlandese che faceva il militare nell’armata inglese. Per stare con lui lasciai Berlino e lo seguii prima a Belfast, poi a Londra, a Tripoli e infine ancora a Belfast».
Ma non era innamorata.
«Lui era violento. Ero infelice. A Belfast sono stata costretta a vivere in una soffitta orribile con i miei bambini. Sua madre era una specie di strega cattiva, gobba, si levava la dentiera e spaventava i miei figli».
Sembra la trama di Raperonzolo.
«Un po’ si. Ma io non avevo trecce da calare dalla finestra. Però un giorno ricevetti una lettera di mio padre che mi scrisse: stai tranquilla, stiamo per venirti a salvare. Poco dopo mi arrivarono dei biglietti aerei e finalmente abbandonai quel postaccio, presi i miei figli, due valigie e scappai, lasciando gli ultimi documenti dei miei antenati Grimm in un baule in Irlanda del Nord. Mio marito mi inseguì fino a Londra per fermarmi ma io non tornai sui miei passi e avviai le pratiche della separazione».
Ma suo padre a Berlino come faceva a sapere della sua infelicità. Gliene aveva parlato?
«No mai, però gliene parlò Guglielmo».
Oh, eccolo il principe.
«Si, ecco che entra in gioco il vero principe. In realtà era entrato in gioco già quando ero a Tripoli. Aveva un’officina sotto casa nostra e un giorno mio marito, l’irlandese, lo invitò a pranzo. Io non avevo preparato granché ma ci pensò Guglielmo a imbandire la tavola. Sa, era siciliano. Da quel momento tra noi ci fu un’intesa molto forte ma io ero sposata e lui non poteva corteggiarmi, guai se fosse stato scoperto».
Dica la verità, nemmeno un bacio?
«Quello ci fu. Clandestino. Pensi un po’ che mascalzone. Un giorno sulla porta di casa mi chiese: vuoi un bacio? Io, tutta rossa in viso, annuii col capo perché le parole non mi uscivano. E lui che fece? Mi diede un cioccolatino della Perugina. Poi però arrivò anche il bacio vero e tutto cambiò».
Finché un brutto giorno...
«.. finché un brutto giorno, nel 1961, mio marito fu richiamato a Belfast e fui costretta a lasciare Tripoli per andare in quella soffitta tremenda. Non le dico il dispiacere. Però io e Guglielmo ci scrivevamo tutti i giorni, in camera ho ancora una cassa piena di lettere e cartoline di quel periodo. In una lettera gli raccontai del sottotetto in cui ero prigioniera, della mia profonda infelicità. Scrissi in tedesco. Lui si fece tradurre tutto da un suo amico, un ufficiale tedesco, Bruno, lo stesso che a Varsavia diede l’ordine di inizio alla notte dei Cristalli. Quando vide la lettera, Bruno gli disse: prima di tradurtela, ti dico solo che devi correre da quella donna, portarla via e sposarla. Così fece. Guglielmo andò a Berlino da mio padre, bussò alla sua porta senza averlo mai visto e gli disse che sarebbe corso da me. Mio padre aveva già sentito parlare di Guglielmo e pensi che nemmeno riusciva a pronunciare il suo nome, difficilissimo per un tedesco. Il matrimonio è stato nel 1966».
E da quel momento cominciò un periodo felice.
«Quella fu la vera favola. Tornammo a vivere a Tripoli che in quegli anni era meravigliosa: c’erano americani, francesi, inglesi, si respirava un’aria internazionale. Guglielmo era un imprenditore e lavorava nel campo petrolifero. Frequentavamo spesso le ambasciate, con cene splendide e feste in abito lungo. Mi sentivo una principessa».
Ecco, a questo punto i Grimm ci inserirebbero un orco cattivo o, che so, un nuovo colpo di scena.
«E infatti fu così. L’orco cattivo si chiamava Gheddafi. Nel 1969 ci fu il suo colpo di Stato e poco dopo cacciò dalla Libia tutti gli italiani. Ricordo che una sera, durante un ballo, ci avvicinò il console tedesco e ci disse: ma come, non sapete nulla? Dovete andare via e mi raccomando, se avete documenti compromettenti in azienda, fate sparire tutto. Allora una notte scavai una buca in giardino, ci misi dentro alcuni contratti che Guglielmo aveva stipulato con il Canada e bruciai tutto. Poi, grazie a una conoscenza in Germania, riuscii a spedire oltre confine uno scatolone con qualche oggetto di valore. Per il resto ci portarono via tutto».
In che modo siete stati espulsi?
«Siamo stati letteralmente cacciati. Ci hanno permesso di portare solo la valigia e 50 sterline. Ci hanno portato via casa, orologi e gioielli. Prima di lasciarci partire, io come tutte le donne, fummo sottoposte a una visita ginecologica per vedere se stessimo nascondendo anelli o bracciali. Ci ispezionavano perfino dentro la bocca». 
Dopo la Libia, voltò nuovamente pagina. E iniziò il capitolo della sua vita in Italia. Ci racconti.
«L’inizio non fu dei migliori. Andammo ad abitare a Roma, in un palazzo a Nomentana, ricordo ancora, al terzo piano. Erano gli anni Settanta, in pieno terrorismo, avevo paura a uscire di casa. Siamo stati lì solo sei mesi».
Come mai è finita a vivere a Rieti?
«Mio marito aveva trovato lavoro in un’azienda di polistirolo di Rieti. Lì per lì mi sono detta: ma cosa andiamo a fare laggiù? A contare le mucche? E tra me e me pensai: vabbé, meglio di Nomentana. In realtà da Rieti non ci siamo più mossi e ci siamo innamorati di questo posto».
Se dovesse identificarsi in un personaggio delle fiabe, chi sceglierebbe?
«Posso dire Heidi?».
Ce ne dica uno delle fiabe «di famiglia».
«Allora Raperonzolo. Ma sono stata anche una principessa. La mia vita è stata tutta un su e giù tra stalle e stelle. La favola a cui sono più legata è Hansel e Gretel, la raccontavo ai nipoti».
A lei che favole raccontavano i suoi genitori?
«Tutte ma tenga conto che a me veniva ancora raccontata la versione più cruenta, quella in cui le sorellastre di Cenerentola si amputavano le dita pur di entrare nella scarpetta di cristallo e in cui la matrigna di Biancaneve era costretta a ballare fino alla morte con un paio di scarpe arroventate».
Poi arrivò Walt Disney e addolcì tutte le trame.
«Si. Ma arrivarono anche i nazisti che le utilizzarono per la propaganda. E allora Cappuccetto Rosso aveva la mantellina con la svastica e al posto del cacciatore c’era un agente delle SS. Poi le favole dei Grimm furono vietate dopo la guerra perché, si diceva, avessero plasmato uomini capaci di Auschwitz. Le trame vennero stravolte ma nessuno in famiglia disse niente, avevamo altre preoccupazioni in quegli anni».
Anche gli psicanalisti furono molto interessati alle trame dei Grimm, cariche di temi scottanti, dall’incesto alla violenza al cannibalismo.
«Furono molto studiate, così come il dizionario di germanistica».
Suo «zio» Jacob diede anche il nome a una legge grammaticale di fonetica sulla rotazione consonantica.
«Nein, questo non lo sapevo proprio».
Ci aiuti a sciogliere un mistero. Gli esperti si accapigliano sull’esistenza di un terzo fratello Grimm. Ma c’è mai stato?
«Certo, si chiamava Ludwig ed era un vignettista».