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 2017  marzo 28 Martedì calendario

Le confessioni di un parroco secondo Gianni Clerici

I “laghee”, gli “sfrosador”, i “borlanda”, la “gesa”. In ordine di apparizione, gente di lago, contrabbandieri, finanzieri, chiesa... No, non è proprio lo slang tennistico a cui Gianni Clerici ci ha abituati – anzi: con cui ci ha viziati –, quello che ricorre nel suo ultimo romanzo, Diario di un parroco del lago (Mondadori). Né la voce che narra è quella a lui consueta: la voce ironica del massimo competente, sostenuta da una passione per il tennis, incessante nei decenni, e dall’esperienza altrettanto profonda che ne è maturata. Clerici sembra qui voler ritornare a tempi, luoghi, usanze immediatamente precedenti la propria gloriosa avventura internazionale, e lontanissimi dal glamour dei “gesti bianchi” e dai riflettori delle dirette tv mondiali. Di conseguenza anche il suo linguaggio, senza perdere nulla in ritmo, eleganza e leggerezza, si fa meno rutilante e più soffuso, adeguato a storie che avvengono fuori dalla vista: nella notte, nelle “bricolle” (i sacchi dei contrabbandieri), nel confessionale, in case di gente taciturna, su “batell”, piccole barche tra una sponda e l’altra del lago. Lago che è quello di Como, «che solo chi non vi abita chiama Lario».
Eccolo, allora, Giovanni Castelli. Dal nome dell’autore ha preso il proprio, dal cognome dell’autore ha preso la categoria di “attività” (come decide di chiamarla, tentato a volte da alternative ancor più secolari come “professione” e “lavoro”). È insomma un prete, don Giovanni, nome su cui «sono nate varie leggende scherzose, fin dal primo anno di seminario». Si tratta di leggende senza fondamento, anche se prima della vocazione una ragazza l’aveva avuta, l’aveva anche vista nuda, ma assieme a lei non aveva compiuto peccati inemendabili, e allora l’avrà forse delusa. Di certo ha poi deluso suo padre, non votandosi a proseguire – lui, unico figlio maschio – la conduzione dell’apprezzata seteria comasca di famiglia. E così, subito dopo la propria ordinazione, don Giovanni è giunto a Lezzeno, sette chilometri di paese posati sulla riva interna del ramo di Como, e ha preso servizio per la prima volta in una sua “gesa”, che sorge proprio al centro del paese e lo divide in due metà: Santi Quirico e Giulitta (con la L). La seconda guerra è un ricordo recente, sul lago si rema ancora molto e i motoscafi sono pochi, la gente è poverissima e il contrabbando di sigarette è la risorsa principale per integrare gli insufficienti ricavati delle attività lecite. Ricevendo le prime confessioni e le prime confidenze dai paesani, don Giovanni si accorge che quella a cui lo sospinge, ancor prima e più del suo ministero, la propria inclinazione personale è un’opera che va oltre l’ascolto, la compassione, la preghiera. È un’opera di mediazione. Senza davvero volerlo, mosso da una curiosità pacata e non sempre allineata ai voleri dei suoi superiori, il sacerdote si trova o si caccia sempre in mezzo: fra giovani e vecchi, genitori e figli, uomini e donne, frequentatori delle parrocchie e delle osterie, contrabbandieri e finanzieri, notabili e gente minuta. Tutto questo in una geografia a sua volta divisa fra la quiete aperta del lago e gli anfratti erti della montagna, perché alla fine i “laghee” sono montanari che invece che una pianura sotto hanno l’acqua. Con i suoi ottimi studi, ma anche le origini indigene, don Giovanni è poliglotta: cioè media fra chi parla italiano e chi dialetto e questo è indubbiamente l’aspetto che Gianni Clerici ha curato con maggiore attenzione. Nelle battute di dialogo in dialetto ha saggiamente dissolto le asperità delle varietà paesane del comasco in un meno ostico lombardo e (sia consentito un ringraziamento personale, di tutto cuore) ha adottato le semplici ed esattissime norme di trascrizione che ci vengono da Carlo Porta. Una nota preliminare le enuncia con divertita equanimità e, quale che sia la propria provenienza, il lettore non solo potrà intendere senza difficoltà il senso delle frasi ma potrà anche farsi una propria idea della loro sonorità.
Il titolo rievoca Georges Bernanos. Ma del diario il libro non ha l’andamento dell’annotazione quotidiana e datata. Quelle che riporta sono quasi le “confessioni” di don Giovanni, come un memoriale che si dipana su una fitta serie di quadretti veloci: “La scopa” (intesa come gioco a carte); “La Marietta” (la perpetua); “Il maestro”; “La barchiroeula” (barcaiola)... Semplici scene che ritraggono una comunità segmentata e angolosa, dove la brava gente non manca, ma vive di reticenze, segreti noti a tutti, intese tacite, sgomenti individuali per le collisioni fra «si è sempre fatto così» e «sta già cambiando tutto». Don Giovanni sa che la sua missione dovrebbe limitarsi all’osservazione e alla consolazione degli afflitti, sa che il suo ruolo non può essere risolutivo, né quando gli si presenta un dissapore coniugale magari dovuto al russare di un marito, né quando si tratta di non far esplodere la violenza sempre latente fra contrabbandieri e finanzieri. Eppure qualcosa che va oltre il suo ministero, e anzi rischia spesso di contraddirlo, lo spinge a entrare in gioco: accettare confessioni che in realtà sono racconti, confidenze, appelli; vedere da vicino e non accontentarsi di quanto gli viene narrato; esserci, a costo di riprendere abiti borghesi dove quelli di uomo di chiesa non sarebbero i più opportuni. Così le scene staccate dei quasi fulminei quadretti si rivelano come fotogrammi di una pellicola unica: la storia di un uomo di mezzo che, senza attraversare drammatiche crisi spirituali e esistenziali, pure deve scegliere se mettersi da una parte.