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 2017  marzo 28 Martedì calendario

Alatri, l’esecuzione in piazza e i silenzi del paese. Così prevale l’omertà

Come reagirebbe ciascuno di noi se assistesse a un feroce pestaggio e a un’esecuzione in piazza? Con la stessa viltà e persino con la stessa omertà dei tanti testimoni, troppi, che nella piazza di Alatri – in provincia di Frosinone, non di Caracas – hanno permesso e dunque alla fine protetto l’assassinio di Emanuele Morganti, massacrato a calci, pugni e sprangate e finito con un colpo di cric?
L’omertà, che è il rifiuto di collaborare con la giustizia, è appena un po’ diversa, ma la viltà di Alatri è esattamente quella che aprì il Giorno della civetta nel 1961: «facce di ciechi, senza sguardo» dinanzi al delitto. La grande differenza è la fiaccolata “dopo”. A quei tempi, infatti, l’indomani non si “fiaccolava” invocando vendetta e dunque nuova violenza. La reazione a caldo invece è proprio uguale: nessuno è intervenuto, nessuno ha organizzato un soccorso. Eppure i tanti testimoni, proprio perché tanti, potevano anche loro fare massa – massa è potere direbbe Canetti –, massa contro massa, folla contro branco.
È comprensibile che dinanzi alla furia si rimanga paralizzati come dinanzi all’esondazione di un fiume. Ed è facile essere eroi con il senno di poi. Però la viltà rimane, e somiglia all’omissione di soccorso prima che all’omertà.
Bene o male infatti i testimoni adesso confusamente si sfogano, e spiegano pure che i buttafuori sono sempre avanzi di galera, e ammettono che nelle discoteche ci si sballa troppo, e ovviamente distinguono gli albanesi dagli italiani. Ma tra i testimoni di Alatri ci sono conti da regolare, e la verità ha il nome e il cognome di chi ha dato il colpo di grazia. Ebbene, per adesso, la verità è tutto quel che non sappiamo. I giovani, che ora collaborano attivamente azzuffandosi e indignandosi, venerdì notte erano il paese, erano l’Alatri degli ignavi danteschi, non certo complice ma di sicuro coinvolto moralmente. E non perché Alatri sia speciale. Non è un’enclave premoderna, non è una caverna di trogloditi ma anzi è un soave paesotto di una bella Italia minore, poco conosciuta come la gran parte delle aree appenniniche, da Bobbio all’Aspromonte; un’Italia dove, a prima vista, i valori e le virtù civiche si conservano meglio.
E non ci sono clochard, lo psicanalista non ha ancora sostituito il parroco e il barbiere, per le strade non c’è l’assoluta indifferenza urbana della metropoli. E dunque se qualcuno si sente male o se qualcuno si comporta male, tutti lo vengono a sapere.
Ora sappiamo che anche questa Italia ha paura, e che dinanzi alla ferocia si paralizza per ignavia. E solo se costretta si proietta, rivela, partecipa. Appena la settimana scorsa avevamo scoperto che, molto più a nord, a Vigevano, che non è lo scenario di Pulp Fiction ma una città del primo Rinascimento con la razionalità della sua piazza bramantesca, insegnanti, bidelli, genitori e vicini di casa, insomma gli adulti non si erano accorti che dieci dei loro figli minorenni, organizzati in banda, assaltavano treni e aggredivano gli altri ragazzi per strada. Erano arrivati a violentare e a ridurre in schiavitù un loro compagno di 15 anni portato al guinzaglio, come in un film di Tarantino.
Eppure nessuno ha segnalato nulla, né un carattere che si guastava, né un dettaglio di violenza a scuola, né una stranezza in casa. Come accade con quei suoni che hanno una frequenza che l’udito non percepisce, così un’intera comunità, in anestesia morale, non vedeva cosa le passava sotto il naso: per ignavia, per paura di compromettersi, per vigliaccheria perbenista. E che genere di omertà è quella che a Parma, per ben sei anni, ha protetto gli stupratori del Centro sociale Raf (Rete antifascista) che avevano drogato e violentato una ragazza filmando tutto in una clip che solo per caso, dopo tanto divertimento tra compagni, è finita in mano ai carabinieri? Un’omertà “antagonista”, ideologica, da disordine giovanile verso “compagni che sbagliano” o di nuovo è stata l’ignavia, supportata come ci ha raccontato Maria Novella De Luca, dall’alibi politico- culturale (si fa per dire) che «con gli sbirri non si parla»?
C’è l’odio malato del Paese nell’aumento dei disturbi di gruppo, delle violenze da branco, che erano tipiche dei territori di guerra e di conquista e oggi sono gli stati umorali allucinati di troppi giovani italiani che ci lasciano a bocca aperta. Non ci sono sociologismi e psicanalisi da esibire: la cronaca nera non si commenta, anche quando la nostra impotenza somiglia a quella dei testimoni che non intervengono.
Però sempre di più le violenze di branco ci rivelano l’ignavia come carattere italiano. Così nella vicenda dello stupro di Pimonte (in 11, ora condannati a un anno e mezzo di “volontariato”), così a Torino… e così dovunque. E merita l’abbraccio di tutti genitori del mondo quel padre che ha postato su Facebook la foto del figlio pestato in mezzo alla strada e in pieno giorno: una faccia tumefatta come monito, scoraggiamento, prevenzione e antidoto anche all’ignavia, che si combatte con la solidarietà attiva e non con la violenza. Invece in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale anche le fiaccolate spesso diventano un “dalli al colpevole”, come a Vasto dove, due mesi fa, istigarono un giovane a farsi giustizia da solo. Purtroppo infatti la violenza è contagiosa. E l’ignavia allo specchio è la vendetta, è la pistola dei giustizieri privati.
Perciò la fiaccolata, convocata per domani ad Alatri, ha già il sapore della vendetta di Alatri su se stesso; sul ricordo, insopportabile come quello del ragazzo morto, del paese che è rimasto fermo a guardare, dei troppi giovani che non hanno avuto il coraggio di aiutarlo.