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 2017  marzo 28 Martedì calendario

New York Review of Books un direttore irripetibile

È morto un campione, e come si usa in ogni sport che si rispetti, nello stadio dove giocava verrà ritirata la sua maglia. Questo campione non vinceva partite, e le folle non conoscono la sua fama, eppure molti sono stati influenzati da lui senza nemmeno saperlo. Che poi è dove risiede la grandezza di un «editor» come Robert Silvers, fondatore, animatore e direttore della New York Review of Books, ma soprattutto «editor» nel senso in via di estinzione che i giornalisti americani danno a questa carica, cioè scrupoloso lettore di ogni singola parola pubblicata sul suo «paper», critico severissimo e implacabile questionatore dei suoi autori, fino a diventarne il nemico, nel nome e nell’interesse reciproco dell’eccellenza. A cui però Silvers univa la genialità, la creatività e l’abilità di accoppiare ogni soggetto al suo miglior interprete possibile, garantendo così il risultato a cui sempre ambiva: una scrittura chiara, ma stesa con una voce distinta, e un contenuto originale fino alla sorpresa.
La leggenda vuole che Silvers, morto il 20 marzo a 87 anni, avesse fondato la New York Review of Books per approfittare di un lungo sciopero avvenuto nel 1962 al New York Times, che aveva lasciato i suoi lettori senza recensioni di libri e articoli di qualità. «Jason Epstein, editor della Random House, disse che quello era l’unico momento nella storia in cui uno poteva pubblicare una nuova rivista dei libri senza metterci un centesimo, perché tutti gli editori avevano ancora bisogno di fare pubblicità ai loro libri. Dovevamo solo aver un progetto plausibile. Quando Jason fece questa proposta io lasciai Harper’s dove lavoravo, e chiesi alla moglie di Jason, Barbara, di unirsi a me. Chiamammo molta gente: Gore Vidal, Norman Mailer, e altri. Grazie allo sciopero del New York Times, la prima edizione vendette 100.000 copie».
Silvers aveva raccontato questa storia in un rara intervista concessa ad Alain Elkann nell’aprile del 2014. Rara perché aveva poco tempo da perdere, oltre a quello preteso dalle esigenze del suo lavoro. Anche a ottanta anni, leggeva ogni parola della Review e spesso non finiva le sue giornate prima delle due del mattino, andando a dormire in una stanzetta ricavata vicino al suo ufficio del West Village. «Io – aveva aggiunto Silvers – penso a ogni articolo come se avesse una voce. La voce deve essere chiara. Poi ci devono essere stile e immaginazione. Ma devi sentire la voce. E la chiarezza è l’obiettivo».
Così nel corso degli anni ha costruito un mito, forse la rivista letteraria più autorevole e seguita al mondo. Non solo per la sfilza di premi Nobel e scrittori straordinari pubblicati, che ad elencarli tutti riempiremmo la pagina facendo comunque torto ai dimenticati, ma soprattutto per la sua abilità di accoppiarli ai soggetti perfetti per ciascuno di loro, producendo sempre qualcosa in grado di stupire. Stampò anche le istruzioni per costruire una bomba Molotov, durante gli anni caldi della contestazione, e fu il primo ad avere il coraggio di criticare la guerra in Vietnam, come quella in Iraq di Bush e la sua prosecuzione da parte di Obama.
Salutandolo sul rivale New Yorker, Adam Gopnik ha scritto che la Review «è diventata meglio di come l’avevano immaginata i suoi fondatori: meno pubblicazione, e più parte permanente della vita intellettuale americana». Christian Caryl ha commentato sul Washington Post che «questo era il momento peggiore per perdere una mente così. Perché? Guardatevi intorno. I cittadini degli Stati Uniti hanno perso l’orientamento. Stiamo vivendo attraverso un sorprendente collasso degli standard spirituali. Barcolliamo in mezzo ad un tempesta di bugie sfacciate, accusa velenose, e corruzione tollerata con leggerezza. Il nostro Presidente è una stella del reality televisivo mascherata da capo di Stato. Le celebrità di Hollywood servono come fonti di emulazione morale. Sentiamo le notizie dai comici degli show serali, e ci chiediamo come mai le camere dell’eco di Internet sembrano peggiorare le cose. Potremmo imparare una cosa o due dall’esempio di Bob».
Silvers si era sempre rifiutato di discutere i piani per la successione, sostenendo che l’unico pensiero che occupava la sua mente era quello di fare la prossima edizione della Review più interessante della precedente. Lo stesso diceva il suo editore, Rea Hederman: «Bob è il direttore. Quando non lo sarà più, allora ne cercheremo un altro». Nel corso degli anni i nomi girati come possibili eredi erano stati quelli di Louis Menand, Ian Buruma, Mark Danner, Michael Shae. Daniel Mendelsohn, però, ha ricevuto l’onore di scrivere il necrologio di Silvers sulla Review, chiudendolo con le sue parole: «Posso pensare a diverse persone che sarebbero editor meravigliosi. Pubblicherebbero un paper eccezionale, ma sarebbe differente».