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 2017  marzo 28 Martedì calendario

In crisi il Bingo, gioco povero. Dimezzate le sale italiane

E dire che tutto era iniziato in pompa magna, con numeri che farebbero girare la testa anche oggi che la lira non c’è più. Perché il Bingo, nel 2000, era la novità assoluta nel mondo dei giochi, pronto a sbarcare in Italia di lì a poco (nel 2001) dopo un successo senza pari in Spagna e nel Regno Unito. E nell’immaginario dei giocatori potenziali c’erano locali mitici dove andare in visita per scoprire in anteprima cosa sarebbe accaduto di lì a poco a casa nostra. E il Flamingo di Barcellona era una tappa obbligata: code all’ingresso, luci blu, viola, gialle. E poi tavoli strapieni e camerieri che portavano ai vincitori di cinquine e Bingo vassoi carichi di pesetas. Qui dai noi, invece, c’erano investitori pronti a mettere mano al portafoglio favoleggiando incassi corposi che, di conseguenza, avrebbero fatto benissimo anche alle casse dello Stato.
Diciassette anni dopo – ma qui la superstizione non c’entra nulla – il Bingo tira le somme. E se non si può dire che ha fatto flop, perché sarebbe una menzogna smascherabile con quattro numeri, si può attestate senza tema di smentita che la tombola istantanea in Italia è in coma. Due cifre bastano per capire cos’è accaduto. Nel 2000 lo Stato programmò l’apertura di 800 sale: dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Un’enormità. Oggi, e se i numeri non sono cambiati nell’ultimo mese – e in peggio – ne restano attive 208. Le altre 600 o poco meno sono svanite. Molte non hanno mai nemmeno aperto. Le altre sono evaporate poco alla volta, tra fallimenti, chiusure decise a tavolino per inestinguibili buchi nei bilanci.
Ad ascoltare le parole di Italo Marcotti, presidente di Federbingo, associazione di categoria vicina a Confindustria: «La crisi dei Bingo è mondiale. C’è stata una decrescita che ha interessato tutti. Non soltanto l’Italia, anche se qui la situazione è complicata». Da cosa? Facile: dai costi. Per aprire una sala, nel 2000 servivano miliardi, in lire eh, ma sempre miliardi. Bisognava sottoscrivere una fidejussione da circa un miliardo e costruire le sale secondo regole fissate da Roma. I tavoli da 8 giocatori, gli arredi e tutto il resto costavano l’iradiddio. Un altro miliardo almeno se la sala era di media grandezza. Un milione e rotti di euro, tradotto nella moneta di oggi. Che detta così non sembrano molti, ma nel 2000 il potere d’acquisto era diverso e due miliardi avevano un peso anche nelle tasche di investitori solidi. Speranze di rifarsi? Tante. ma soltanto sulla carta. A conti fatti, la storia è andata in un altro modo. «Perché il Bingo è un gioco povero, e il nostro target di frequentatori delle sale è basso» insiste Marcotti che in quel mondo è un’autorità assoluta.
Diciassette anni dopo, il Bingo incassa in totale, ogni anno, un miliardo e 400 milioni: da cui bisogna togliere i soldi che vanno all’Erario, quelli delle vincite e i costi. Tra tutti anche 5 mila euro al mese per i diritti di concessione. Un ennesimo balzello. A un euro a cartella di gioco, di estrazioni bisogna farne un bel po’. E le sale non è che siano particolarmente piene, anche perché ai tavoli non si parla. Si gioca, si fuma, e al massimo si mangia. «Il cibo è la nuova tendenza: le sale si stanno reinventando per cercare di sopravvivere ed essere più attrattive. Food a costi contenuti e gioco, possono essere una strada di salvezza» dicono ancora gli esperti del settore. Sarà. Ma per ora vale ancora la considerazione di Marcotti: «Molto spesso il Bingo è stato un business solo per chi ha costruito le sale». Non per gli investitori. E tantomeno per i giocatori che se sono molto fortunati se ne vanno con una vincita di poche centinaia di euro. Ma è raro.