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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Carminati e il complotto nel caveau

La toga più illustre tra le vittime del colpo al caveau è Domenico Sica. Sostituto procuratore a Roma dal 1964, ha condotto tutte le indagini più scottanti di quegli anni, dal rogo di Primavalle nel 1973, agli omicidi di Mino Pecorelli e del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco nel 1979 a quello del giudice Girolamo Minervini nel 1980. Si è anche occupato del caso Moro, della scomparsa di Emanuela Orlandi, della morte di Michele Sindona e dell’attentato a papa Giovanni Paolo II. Magistrato instancabile, si guadagna tra gli estimatori il soprannome di “Nembo Sic”, mentre i detrattori si riferiscono a lui con l’epiteto di “Rubamazzo”, da quando una sua indagine parallela ha permesso di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Nel 1988 viene preferito a Giovanni Falcone alla guida dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia, trasformandosi da magistrato a prefetto con poteri speciali. Non si dovrà più fermare davanti ad alcun segreto, né bancario né istruttorio, avrà a disposizione grosse somme di denaro provenienti da fondi riservati per pagare spie e infiltrati, e un pool di magistrati di sua fiducia. (…)
Nel caveau della Banca di Roma di piazzale Clodio Domenico Sica e la moglie sono titolari di due cassette, una grande, la 720, e una piccola, la 523. La banda svaligia solo quella grande. Il prefetto viene ascoltato a Perugia durante il processo, e l’ex Alto commissario rievoca brevemente la sua carriera: «Ho fatto un po’ di tutto», racconta alla pm Della Monica, «nel senso che ho fatto prima il magistrato e poi il prefetto». «Nella sua professione di magistrato», gli domanda la pm, «ha mai trattato processi contro esponenti della Banda della Magliana?». Sica risponde ripercorrendo le diverse tappe in cui si è snodato il suo lavoro al fianco del giudice istruttore Ferdinando Imposimato, con cui ha portato avanti inchieste sul terrorismo e, appunto, sulla Banda della Magliana. Con Imposimato, Sica «faceva sempre coppia». (…) Ai giudici di Perugia ricorda alcuni dei successi ottenuti in team con Imposimato, a cominciare dal ritrovamento dell’arsenale nei sotterranei del ministero della Sanità all’Eur. «Quello era un deposito sicuramente della Banda della Magliana. (…) Questo ritrovamento di armi ci portava al personaggio di Abbruciati» e da questi al boss siciliano Pippo Calò che si nascondeva a Roma. «Ho fatto arrestare io Pippo Calò dopo che eravamo riusciti a risalire alla sua identità, che passava da Salamandra a Del Gesù, e poi alla fine uscì fuori che era Pippo Calò. Quando andai a sentire Calò alla questura di Roma mi corse incontro molto affettuosamente e mi disse: “Ah, finalmente, dottor Falcone”. E dico: “No”. E poi alla fine dell’interrogatorio Calò mi chiede, perché era un uomo di grande intelligenza, ma molto pericoloso: “Poi, quando sarò scarcerato, mi aiuta a trovare un lavoro?”. E rispondo: “Come no?"». Il riferimento a Calò, spiega Sica alla pm, spuntava fuori da un’indagine per il rapimento del costruttore Renato Armellini, avvenuto nel 1980 a Roma. «Questa inchiesta mi portò in Sicilia, dove erano riapparse alcune banconote che provenivano dal sequestro Armellini, e in quella occasione ho fatto arrestare il figlio di Buscetta, quello che poi fu ucciso per mandato di Calò». (…) Ma cosa conteneva la cassetta di Nembo Sic che la banda ha aperto e ripulito nell’incursione al caveau? C’erano dentro «sterline che ho comprato in coppia per regalarle alle mie ragazzine, che adesso sono diventate donne grandi, e poi c’erano 900 dollari, o qualcosa in più, e un piccolo pacco di quegli attrezzi che si regalano alle comunioni, alle cresime ai battesimi, catenine, minuzie del genere. E poi c’era una cosa che in precedenza, al momento del furto non ho dichiarato» rivela Sica, «ma che non ritengo sia importante: c’erano alcuni semi di zucca, di una zucca particolare, argentina, che si chiama Luffa, e che è quella cosa che si compra in farmacia, sono delle grandi spugne vegetali». E documenti? «Assolutamente no. L’unica cosa che ho dimenticato, non volevo sembrare umoristico, ma effettivamente c’erano questi semi di questa zucca molto divertenti». Il presidente del tribunale e il pm insistono nel chiedere a Sica se magari, in passato, qualche carta nella cassetta ci sia stata, ma Sica continua a negare, finché, infastidito, non sbotta: «Io sono anche… non lo so, perché una parte della destinazione della cassetta risale a un’epoca in cui ero Alto commissario». E poi sottolinea: «Quindi non lo so, sarei anche tenuto alla riservatezza su quello che poteva contenere la cassetta, ecco». È una dichiarazione pesante, che apre diversi squarci di ipotesi sulla destinazione effettiva di quella cassetta. «Be’, dipende se si tratta di cose che formano oggetto di segreto tuttora perdurante… Se si tratta di cose che hanno riguardo a un segreto d’ufficio» replica allora il presidente del tribunale Ricciarelli e Sica risponde: «No, semplicemente che per comodità una piccola parte della liquidità dei fondi riservati dell’ufficio la tenevo nella cassaforte dell’ufficio, di cui non mi fidavo granché, mi fidavo di più delle cassette di sicurezza…». «E fa parte del materiale che le è stato sottratto, oppure di quella cassetta che è rimasta…?», domanda il presidente. «No, no, di quella che è stata aperta, ma dentro non c’era più nulla, assolutamente». La pm Della Monica però insiste ricordando a Sica una frase da lui pronunciata durante le indagini e messa a verbale. «All’esito delle indagini svolte sul terrorismo», disse allora Sica, «ero arrivato alla conclusione che esistesse un’agenzia di servizi cui si rivolgevano sia terroristi di destra che di sinistra» tra le altre cose anche per ottenere «i documenti falsi della stessa provenienza, rinvenuti in ambiti criminosi diversi». «Un punto essenziale di questo processo» argomenta la pm «è quello di chiedere a tutti, perché alcuni hanno riferito che effettivamente furono asportati documenti, le debbo fare questa domanda specifica: in relazione a questa affermazioni che lei fece, lei aveva dei documenti? E sentendo che adesso ha detto: “Alcune cose riservate non le ho dette perché pensavo potessero essere collegate a un segreto d’ufficio”, se aveva dei documenti riguardanti queste sue affermazioni, questa sua supposizione, questa sua ricostruzione, a dir la verità, perché mi pare più corretto la sua ricostruzione...» «No, nessun documento» risponde Sica. «Nessun documento che potesse essere asportato relativo alla sua attività di magistrato o presso l’Alto commissariato antimafia?» incalza la pm. «Assolutamente nessun documento» ribadisce Nembo Sic. (…)
Giuseppe Cillari e la compagna Matilde Ciarlante, sono marito e moglie e nella Capitale si muovono con disinvoltura e spregiudicatezza in una variegata serie di ambienti malavitosi. Sono entrati e usciti dal carcere diverse volte e gestiscono un flusso di denaro costante. (…) i magistrati si presentano nella sontuosa abitazione della coppia, e vengono accolti all’ingresso da un fidato amico dei padroni di casa. I pm sono sorpresi, a fare gli onori di casa è un sacerdote, don Patrizio, amico e ospite della famiglia Cillari, che si presenta come segretario del vescovo di Salerno e afferma di essere stato trasferito in Vaticano perché chiamato a far parte del Comitato centrale del grande Giubileo dell’anno 2000 come collaboratore di monsignor Crescenzio Sepe. Il prelato fa accomodare i magistrati e i carabinieri e offre loro da bere mentre attendono l’arrivo di Cillari. Il salernitano compare davanti agli ospiti sulla sedia a rotelle. Parla in dialetto. Se non fosse una faccenda serissima sembrerebbe di assistere a una scena da commedia all’italiana. Gli inquirenti raccolgono le dichiarazioni di Cillari (…) «Andare a fare un colpo nella Banca di Roma, che sta sotto il tribunale di Roma e nella Città giudiziaria... è una cosa che è obiettivamente pericolosa», osserva a un certo punto della conversazione la pm Silvia Della Monica. «Ci faccia capire: la ragione di un furto così pericoloso qual è?». E lui: «Sentite, volevo dire… la ragione è quella di vendere i documenti e ricattare i magistrati». «E quale tipo di documenti pensavano di trovare?» «Eee… ci sono i documenti… stanno…» «C’erano? Nel senso che loro pensavano fossero contenuti nelle cassette…» «L’hanno presi… hanno aperto centosettantatré [in realtà ne sono state aperte centoquarantasette, N.d.A.] cassette». «Avevano una mappa delle cassette da aprire?» «Tutto». «E chi gliela aveva data?». E qui Cillari risponde: «I carabinieri». «Eh, ma i carabinieri non lavorano proprio in Banca, avevano un complice nella Banca?» domanda la pm. «E si capisce». Cillari conferma quindi che esisteva una lista, ma diversamente da lui sostiene che su quell’elenco ci fossero i numeri delle cassette che contenevano documenti, e non i tesori più appetitosi. Su chi abbia fornito questa lista alla banda, però, non dà informazioni plausibili. Le rivelazioni dell’uomo non sono ancora finite. Richiamandosi a una frase da lui poco prima lasciata in sospeso in cui faceva riferimento a un avvocato che in quel momento si troverebbe con Tomassi a Montecarlo, Della Monica gli domanda: «C’erano degli avvocati che erano entrati nell’organizzazione di questo furto?». E Cillari: «Perché degli avvocati glielo hanno ordinato». nIl 30 marzo sarà in libreria “La lista – Il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati” (Rizzoli) di Lirio Abbate. Il libro parte da atti inediti sul furto del secolo al caveau della banca di Roma a piazzale Clodio, nel cuore della città giudiziaria. Era il ’99 quando una banda guidata da Carminati portava via documenti e gioielli da alcune cassette di sicurezza: una rapina che, coi suoi interrogativi, ha cambiato la storia del Paese. Ora viene svelato il filo nero che lega alcune vittime ai più grandi misteri d’Italia. Da dichiarazioni inedite si scopre il ricatto. Un intreccio di criminalità, politica e magistratura, che mostra la capacità di penetrazione di un potere che conduce fino a mafia Capitale. Qui pubblichiamo uno stralcio del libro.