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 2017  marzo 27 Lunedì calendario

Ezio Rossi: «Sono un orso: al grande calcio preferisco il Casale in serie D»

“Ma come fai a sapere tutte queste cose?”. Ezio Rossi ride di gusto mentre racconta l’ultima intervista appena rilasciata a una web tv: “Mi arriva al campo un ragazzino, bravo, volenteroso. Ma c’è un acquazzone tremendo, lui deve tenere la telecamerina, il microfono e l’ombrello. Non sappiamo dove andare, così lo porto nel magazzino con vista campo (un acquitrino) e lo aiuto ad allestire un set come si deve. Così lui si stupisce e mi fa quella domanda…
E lei cosa ha risposto?
Sai com’è, a passare dalla sala stampa di San Siro a quella improvvisata di un magazzino, ci si porta comunque dietro qualche competenza…
Avete presente un calciatore poi diventato allenatore, insomma un uomo votato al calcio? Ecco, cancellatelo dalla mente. Ezio Rossi, 55 anni, torinese di sangue granata, è l’esatto contrario. La sua voglia di apparire è pari all’amore di un gatto per una vasca da bagno piena.
L’espressione rituale del suo viso assomiglia a quella di un orso appena svegliato dal letargo. Eppure, se il calcio è ancora una bella storia, è perché esistono ancora gli Ezio Rossi: difensore di buon livello dagli Anni 80/90, poi allenatore specialista in promozioni, ha assaggiato anche le panchine di seria A. Oggi siede su quella del Casale, i gloriosi nerostellati che – a dispetto della gloria – languivano tra i dilettanti e ora hanno riguadagnato il primo gradino del professionismo, la serie D che stanno difendendo.
Rossi, lei ha allenato in serie A. Poi ha deciso di farsi da parte dal “grande” calcio. Una scelta o una naturale deviazione della carriera?
Una via di mezzo. Ho un grosso difetto, non so sfruttare le rendite di posizione al momento giusto Quando arrivi a certi livelli è naturale allacciare molti rapporti che ti aiuti a stare a galla. Io invece ho tenuto tutti lontano. Così al primo anno storto, niente panchina. Dopo l’esonero dal Treviso in serie A, mi chiamò il Grosseto di Camilli. Altro che Zamparini, andare lì significava avere già in tasca il foglio di via. Poi arrivai a Gallipoli, il Gallipoli della disperazione, acqua e detersivi pagati dai tifosi. Ho smesso di aspettare panchine: dovevo tornare a Torino, mia moglie era in aspettativa e uno stipendio in casa non poteva mancare. Così ho ricominciato dal basso.
Pensa di aver pagato qualcosa?
La mia incapacità di leccare culi. Per tornare in alto bisogna vincere. E comunque la stessa storia l’ho vissuta da calciatore. Cacciato dal Toro, giocai tre bellissime stagioni a Verona, pieni di difficoltà, poi fui spedito a Mantova dove sfiorammo la promozione in B, ma la società era allo sbando. Così a 32 anni andai al Legnago tra i dilettanti. Poi il Treviso, tre promozioni di fila dalla C2 alla B.
Il calcio “minore” è una parentesi?
Quando torni tanto in basso è difficile risalire. Ma sono orgoglioso di essere controcorrente. Le persone che mi conoscono lo sanno e spero apprezzino…
Orgoglioso?
Quando ero disoccupato ho fondato una scuola calcio gratuita in un oratorio, ho allenato una squadra di rifugiati politici. Due di loro, arrivati in gommone a Lampedusa, me li sono portati a Casale… Di questo sono orgoglioso, anche se una cosa è francamente irraggiungibile…
Quale?
Quel gol alla Juve…
(Ezio Rossi ride. Nei suoi occhi scorre il film di quella sera, 6 aprile 1988, derby in semifinale di coppa Italia. Piove a dirotto su Torino, piove sui 35 mila del vecchio Comunale. Giorgio Bresciani avanza palla al piede sulla trequarti. Assist a centro area al liberissimo Gritti che –nonostante la posizione favorevole – appoggia una palla alta indietro, al limite. Rossi è lì e – sgraziato come solo lui sapeva essere – s’inventa una semirovesciata al volo di sinistro nonostante l’equilibrio precario. Palla all’incrocio, gol, due a zero. Rossi non ci crede, mani sulla faccia, corsa forsennata verso la Maratona. Il Toro andrà in finale e – ovviamente – perderà la coppa all’ultimo minuto del secondo tempo supplementare nella partita di ritorno ritorno contro la Sampdoria)..
Fa a uno strano effetto sentire la sua storia, proprio nei giorni in cui i “grandi” club di A sbattono la porta in Lega.
Il grande calcio è malato, per colpa di chi lo ha gestito. Gli stadi vuoti sono desolanti, la tv (quello che interessa alle “grandi”) ha portato via tutto, ha tolto valore ai campionati minori. Ma uccide anche la serie A. Ho visto Bologna-Chievo con il Dall’Ara deserto. Chi governa il calcio dovrebbe farsi qualche domanda, invece continua a votare gli stessi, esattamente come in politica. Tutti si lamentano, perfino i dirigenti. Ma se ti lamenti poi che fai? Rivoti Tavecchio, lecchi il culo e mantieni la poltrona.
Torniamo a Torino. Lei è nato a due passi dal Filadelfia, il mitico stadio, è cresciuto nel Torino e in granata è diventato adulto. Nel calcio di oggi non c’è più spazio per queste storie?
Ho avuto la fortuna di non aver mai fatto un lavoro vero, però la riconoscenza, nel calcio, non te la devi aspettare. Il calcio è fatto di presente… Lo dico anche ai miei ragazzi, non aspettatevi riconoscenza. O meglio, non dagli addetti ai lavori, semmai dalla gente.
Ho allenato il Toro nel periodo più sfortunato della storia, ma tra me e i tifosi non è cambiato nulla. Mi scrivono ancora quelli della Triestina, che per poco riportai in serie A. Ma questo è importante per me, non per i miei datori di lavoro. Tra quelli molto fortunati, i lavoratori del mondo del calcio sono i più precari.
31 ottobre 1982, esordio in serie A…
Fiorentina-Torino, zero a zero, mancano otto minuti alla fine. La Fiorentina attacca e, come spesso accadeva, Passarella (difensore capace di segnare 165 gol in carriera, ndr) si butta all’attacco. Bersellini mi chiama: “Rossi, tocca a te. Entra e marca a uomo Passarella”. Dovevo stare addosso al loro libero per tenere lo 0-0, per fortuna ci riuscimmo. Fu una grande emozione: sono fiero di essere l’unico nella storia nato a Torino, granata da sempre, ad aver giocato ed allenato il Toro.
Il ricordo più bello in campo?
Oltre al gol alla Juve, aver vinto un campionato di serie B a 21 anni, a Lecce, La prima storica promozione in serie A.
E quello in panchina?
La promozione in B con la Triestina nel 2012.
Il più forte contro cui ha giocato?
Van Basten. Non riuscivi neanche a menarlo.
Il miglior allenatore?
Dal punto di vista tattico non ho dubbi: Luigi Manganotti del Legnago. E guardi che non scherzo. Ho avuto un ottimo rapporto con Fascetti, tanto che tutti pensavano fossi il suo figlioccio… Eravamo insieme a Lecce, sono stato io a suggerirlo al Torino quando retrocedemmo in B nel 1989, lo portai io a Verona dopo che entrambi fummo cacciati dal Toro. Ma ci dicevano tre parole all’anno, però c’era stima reciproca, forse perché eravamo due orsi.
Un giocatore che è fiero di aver lanciato?
Balzaretti. Era un po’ come me, faceva sempre il doppio degli altri. Era destro ed è diventato sinistro, si è irrobustito… L’ho voluto io al Torino nel 2004, era già dell’Alessandria È arrivato in Nazionale.
In questi giorni si celebrano gli 80 anni di Carlo Mazzone… Le ricorda qualcosa, per esempio Lecce-Torino ’89?
Il momento peggiore della mia carriera, il Toro in B. Allora era inconcepibile.
L’anno dopo cavalcata in B.
A fine primo tempo, a Torino, venivano negli spogliatoi a chiedere che ci fermassimo. Solo il Pescara, forse, non lo fece, e finì 7-0.
Quella squadra arrivò praticamente in finale di coppa Uefa nel ’92. Purtroppo non ci fu più spazio per Rossi…
Una brutta storia, ma sono passati più di 25 anni.
Torniamo al Casale, non solo una gloriosa società, ma anche la squadra di una città martire dell’amianto…
Non vivo a Casale, ma so bene cosa significhi per Casale l’Eternit. Recentemente si sono ammalate due persone che ci davano una mano al campo. In Italia tante città vivono un momento di depressione sociale ed economica, ma qui mi sembra più accentuata. E l’esito in Cassazione dei processi di Torino non ha fatto che aumentare la rabbia.