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 2017  marzo 27 Lunedì calendario

Saccheggiata e scomparsa: l’arte perduta per le guerre

No, la “Gioconda” no, quella non è stata saccheggiata, anche se in tanti lo pensano, compreso quel Vincenzo Peruggia che nel 1911 la ruba con l’intenzione di riportarla in Italia. Invece il ritratto di Monna Lisa era stato venduto a Francesco I proprio da Leonardo da Vinci, trasferitosi alla corte del re di Francia. Legittima proprietà transalpina, quindi. Ma nella stessa sala del Louvre basta girarsi per ammirare qualcosa che lì si trova in maniera molto meno legittima: le “Nozze di Cana”, di Paolo Veronese, parte di quel gran bottino portato via dall’Italia che ha contribuito a creare i musei europei come li conosciamo oggi. Senza le opere d’arte predate dalle armate napoleoniche prima e da quelle naziste poi, i musei d’Europa sarebbero molto più poveri e l’Italia invece molto più ricca.
In guerra si è sempre saccheggiato e i beni artistici hanno costituito le pietre più preziose con le quali agghindare le corone dei vincitori. Basti pensare ai quattro cavalli di bronzo dorato che i veneziani strappano all’ippodromo di Costantinopoli nel 1204 per issarli sulla balaustra della basilica di San Marco. I francesi se li prendono nel dicembre 1797 per portarli a Parigi, salvo doverci rinunciare dopo il congresso di Vienna.
Dalla Francia è tornata circa le metà degli oggetti portati via in epoca napoleonica. È rientrato quel che si trovava al Louvre, e neppure tutto, ma non ciò che era stato assegnato al palazzo reale (mica si poteva fare uno sgarbo a Luigi XVIII, messo sul trono dalle potenze alleate) e neanche quello che era finito nei musei dipartimentali. Tanto per dire, i commissari napoleonici mandano in Francia numerosi quadri del Perugino, ma quell’autore non piace al direttore del Louvre, Vivant Denon, che non lo ritiene degno del suo museo e quindi ne smista le opere nei musei dipartimentali.
Nel 2016 lo “Sposalizio della Vergine” del Perugino, oggi nel museo di Belle Arti di Caen era stato esposto a Milano affiancato a quello di Raffaello, simbolo della pinacoteca di Brera. Le due opere sono chiaramente ispirate l’una all’altra (Perugino finisce il proprio nel 1503, Raffaello lo comincia nel 1504) ed entrambe sono rimaste vittime dei saccheggi. Infatti il quadro di Raffaello era a Città di Castello dove un generale napoleonico, il bresciano Giuseppe Lechi, nel 1798 se lo fa regalare. Dopo un po’ lo vende e, dopo varie vicissitudini, il dipinto finisce a Brera, diventandone l’icona.
La galleria milanese era stata concepita come il Louvre italiano e le opere d’arte sono state raccolte con lo stesso criterio: prendendosele, soprattutto alle altre due pinacoteche costituite in epoca napoleonica: le gallerie dell’Accademia a Venezia e la pinacoteca di Bologna. Milano era la capitale, aveva diritto alla prima scelta. Per questo motivo oggi le più grandi collezioni del mondo di arte veneta e di arte romagnola si trovano a Milano.
Da Parigi è tornato nella milanese biblioteca Ambrosiana il codice Atlantico di Leonardo da Vinci, ma non gli altri dodici codici “minori” che, trattandosi di Leonardo, tanto minori non sono. Il gruppo scultoreo classico “Nilo” ritorna a Roma, da dov’era stato portato via, ma non il “Tevere”, che resta invece a Parigi. La “Maestà” del Cimabue, presa a Pisa, rimane al Louvre perché è molto grande e difficile da trasportare; la stessa scusa viene utilizzata per trattenere a Parigi le citate “Nozze di Cana”. Non si capisce perché i francesi si facessero tanti scrupoli a far affrontare il ritorno a opere che avevano senza problemi trasportato all’andata. Anzi, il quadro di Veronese, sei metri e mezzo per dieci, era stato fatto letteralmente a fette e ricomposto a Parigi.
Passato l’uragano napoleonico, il Lombardo-Veneto viene assegnato agli austriaci. Di nuovo Milano è in posizione preminente rispetto a Venezia, per secoli nemica degli Asburgo, e quindi da un lato nulla ritorna da Brera in laguna, dall’altro si prende a Venezia per abbellire Vienna. Nel 1918 gli italiani sono andati nei musei e nelle biblioteche dalla capitale austriaca a ripigliarsi quel che era stato portato via durante il sessantennio asburgico, ma anche in questo caso non tutto torna: sono rimasti a Vienna i quadri di scuola veneta che si ammirano all’Accademia di Belle arti, o il paliotto ricamato da Ottavia e Pierina Robusti, figlie del Tintoretto.
Il saccheggio napoleonico comincia nel 1796 e va avanti fino al 1811, quello nazista dura molto meno e si divide in due fasi, prima e dopo l’8 settembre 1943. Per cinque anni, dal 1938, gli emissari di Hitler e Göring comprano arte italiana per arricchire le collezione dei loro capi, con grandissima gioia degli antiquari, soprattutto fiorentini, che quelle opere d’arte vendevano. Dopo l’8 settembre i nazisti si prendono ciò che vogliono.
La gran parte di queste opere è rientrata, ma ancora una volta non tutto. Nonostante l’unica modifica ottenuta dall’Italia nel trattato di pace del 1947 consentisse di riavere anche le opere d’arte uscite prima dell’8 settembre 1943, è rimasto in Germania, alla Gemäldegalerie di Berlino, il soffitto che Sebastiano Ricci aveva dipinto per Ca’ Mocenigo, a Venezia, e che Andy di Robilant, il proprietario di allora, aveva venduto nel 1941 agli emissari di Göring per finanziare le riprese del film “Canal Grande” che stava girando.
Secondo i calcoli effettuati dai carabinieri del comando Tutela patrimonio culturale (Tpc) mancano ancora all’appello 2.487 pezzi saccheggiati dai nazisti (tremila sono ritornati). Di circa 800 fra questi esistono le fotografie, gli altri possiamo scordarceli, perché non sappiamo neanche come fossero. Ogni tanto viene fuori qualcosa, per esempio nell’aprile 2016, i carabinieri hanno ritrovato a Milano tre quadri appartenuti alla collezione di Felice di Borbone-Parma. Qualcos’altro è esposto, come gli otto quadri portati da Ante Topic Mimara nel Museo nazionale di Belgrado (vedi articolo a fianco). Altre cose sono invece sparite e si pensa che potrebbero almeno in parte trovarsi nei sotterranei del museo Puškin di Mosca, o dell’Hermitage di San Pietroburgo.
I sovietici avevano mandato in Russia tutte le opere trovate nella parte di Germania occupata dall’Armata rossa. Si calcola che fossero circa due milioni e seicentomila pezzi; un milione e mezzo è stato restituito alla Ddr nel 1955, dell’altro milione e passa poco si sa. È possibile che là in mezzo ci siano anche le opere d’arte che i nazisti avevano saccheggiato in Italia e portato nelle zone della Germania poi occupate dall’Urss. Tra queste, la “Testa di fauno”, scultura giovanile di Michelangelo che si trovava nel fiorentino museo del Bargello è la più famosa.
Di sicuro rimarrà a San Pietroburgo il telescopio che gli italiani avevano ordinato nel 1938 alla Karl Zeiss Jena, ma poi mai consegnato a causa della guerra. Portato via dai sovietici, è finito nell’osservatorio di San Pietroburgo dov’è tuttora in uso e dove gli astronomi russi lo hanno amichevolmente soprannominato “telescopio Mussolini”.
Un discorso a parte meritano i libri, spariti a decine di migliaia, sia in epoca napoleonica, sia in epoca nazista. I tedeschi avevano rastrellato a Roma la biblioteca rabbinica e quella della Comunità ebraica. La prima è tornata, la seconda è scomparsa. Si tratta di una delle biblioteche più importanti dell’ebraismo, con opere proveniente dalle varie sinagoghe romane. Si ritiene che fosse finita nei dintorni di Berlino e quindi possa essere caduta in mani sovietiche. In effetti una foto scattata nel 1990 nei sotterranei del monastero di Uzkoe, poco fuori Mosca, è piuttosto significativa: si vede un uomo camminare in mezzo a due pareti di libri più altre di lui.
Lì si trovavano ammassati (non si sa se ci siano ancora) due milioni e mezzo di libri che i russi avevano portato via dalla Germania nel 1945. Quindi che i settemila preziosissimi volumi romani siano là in mezzo è assolutamente possibile. Il punto è che per andare a vedere se in effetti ci siano bisognerebbe stringere un accordo con il governo di Mosca. I tedeschi lo hanno fatto, e alcune restituzioni ci sono state, mentre l’Italia non ha mai aperto trattative né con l’Urss prima, né con la Russia poi.