Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  marzo 27 Lunedì calendario

Mafia Caporale: i 130 mila schiavi moderni d’Italia

Lontano dalle teste i tentacoli si toccano, ma le teste sanno. Sanno sempre tutto”. Le teste di cui parla Leonardo Palmisano nel suo ultimo libro, Mafia caporale, sono quelle di un sistema criminale complesso e spesso invisibile. Il volume, edito da Fandango, esce il 30 marzo e racconta un sistema orizzontale che sfrutta da Nord a Sud. Un sistema radicato in ogni settore dell’economia, dall’agricoltura all’università, che non distingue tra emarginati, poveri, professionisti, laureati, adulti e bambini. Mafia caporale è un viaggio nell’Italia dimenticata, impoverita e sfruttata.
Rosa è una ragazzina appena adolescente, costretta a prostituirsi alla periferia di Bari. Con il suo giubbotto piumato, le gambe magre e i tacchi “sembra un fenicottero”. Guadagna 20 euro a prestazione, il resto va ai caporali, ai protettori. “Rosa vive in uno dei campi rom di quella parte di città in mano al clan Di Cosola di Bari, uno dei più potenti. Ma su quei campi c’è anche l’ombra dei Casamonica, che intesse relazioni con la mafia per spartirsi droga, racket, sale slot, mendicanti, minori e prostitute”, racconta Palmisano. Rosa, infatti, viene dalla Capitale. I clan locali si fanno pagare il trasporto delle ragazze, tessendo così rapporti con alcune organizzazioni criminali romane.
“Mafia capitale – spiega lo scrittore – è un sistema verticale, che aveva a capo Buzzi e Carminati, radicato nella zona grigia che c’è tra politica e criminalità. La cosiddetta terra di mezzo. Mafia caporale è il passo successivo, il salto di qualità. Perché approfitta dei richiedenti asilo, tenuti alla fame dai centri d’accoglienza gestiti da mafia capitale e li sfrutta nei campi come manodopera a basso costo”. Secondo il Global Slavery Index 2016 – il rapporto annuale sulla schiavitù nel mondo della Walk Free Foundation – sono quasi 130 mila le persone ridotte in schiavitù in Italia. Lo sfruttamento avviene ovunque. Campi rom, periferie, Cara, cooperative, ma anche uffici e università.
Ovunque ci sia umanità povera o indifesa si insediano i caporali. Anche a Taranto, quartiere Tamburi. Noto alle cronache come zona a ridosso dello stabilimento Ilva, un non-luogo in cui si vive sperando di non ammalarsi di cancro. Qui molti bambini lasciano la scuola e vanno a fare piccoli lavoretti. Uno di questi, si legge nel libro, aiuta un tale che lavora per il corriere Bartolini. Carica e scarica pacchi per 200 euro a settimana. Aiutare la famiglia è il prezzo di un’infanzia perduta troppo in fretta. “Le grandi aziende stabiliscono i tempi del lavoro. Non importa ‘il come’, ciò che conta è il risultato”, commenta Palmisano.
Dimitar è un altro bambino sfruttato nei campi intorno a Borgo Mezzanone (Foggia). Facendogli credere che fosse un gioco, un giorno il padrone gli ha messo in mano uno zaino di plastica con una pompa e lo ha mandato nei campi a spruzzare veleno. “Al capo italiano diamo 8 euro al giorno. Lui ci porta al campo e ci riporta indietro. Con le nostre macchine non possiamo andare al campo, non sappiamo dov’è. Lui sa”.
Le cifre delle agromafie sono spaventose, se si pensa che il loro fatturato è di 21,8 miliardi di euro, secondo il rapporto 2017 promosso da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e nel sistema agroalimentare.
In questo tessuto sociale fatto di povertà e solitudine le storie di Mafia caporale ci restituiscono un paese di schiavi moderni. Come Cinzia, una donna di Trento che scrive online recensioni sui ricambi d’auto. Un lavoro strano, pagato un euro ogni 1.850 battute. Chi sia davvero il suo datore non si sa. “Mi ha contattata su Twitter”, si legge. Un nome di fantasia, una ricarica sulla Postepay ogni 10 giorni e guai a ribellarsi. “Sa tutto di me. Sa dove abito”.
E poi c’è Catrina, cameriera della Transilvania arrivata in Italia per mano della ‘ndrangheta calabro-veneta, travestita da agenzia internazionale di somministrazione lavoro. Catrina lavora in un albergo di Rimini. L’agenzia, invece, è in Romania. Il proprietario è un italiano, ed è un caporale. Si fa dare 800 euro per due mesi da ogni cameriera, più i costi d’iscrizione all’agenzia. Un pizzo che le donne sono costrette a pagare solo per poter svolgere il loro lavoro, in condizioni disumane. “Vivono come sardine – racconta l’autore – una stanza per otto persone con un solo bagno, senza bidet e una doccia piccolissima”.
I crimini di Mafia caporale arrivano anche a Torino. Qui, nel quartiere San Paolo, Palmisano incontra “il commercialista della ’ndrangheta”. Aveva un debito di un milione e mezzo di euro, “con loro”, i mafiosi. Per saldarlo ha dovuto dare in garanzia i suoi clienti, passando informazioni sullo stato delle loro aziende. E la ’ndrangheta ha potuto così metterci le mani sopra. “Cosa ti hanno chiesto, i libri contabili?”, chiede l’autore. “Sì ed anche la situazione patrimoniale dei soci. Hanno voluto vedere i libri delle imprese messe peggio”, risponde il commercialista.
Spesso un posto di lavoro significa un bacino di voti. Lo ammette anche un attacchino di Salerno. Di solito fa il parcheggiatore abusivo, ma quando si vota attacca manifesti elettorali: “Le persone non cambiano mai, – racconta l’uomo nel libro – cambiano i partiti”.
Nelle terre di San Francesco d’Assisi, invece, mafia caporale cambia. Ma solo il nome, diventando massoneria umbra. Un sistema che può decidere di mettere alla porta una ricercatrice rea di non essersi piegata ai ricatti sessuali del suo professore. È la storia di Giulia, 2,50 euro all’ora per lavorare in un call center dopo anni di studi. Il sistema che descrive ha tre livelli: il primo, più rozzo, è quello cinese che gestisce la manodopera, poi uno intermedio, quello dei caporali che operano nei campi, e infine i massoni. Da questi dipendono le sorti di interi apparati universitari.
Il viaggio di Palmisano, però, ci riporta a Roma. Qui anche per fare l’artista di strada e avere un piccolo spazio per esibirti devi pagare. Perché tutto fa business, business criminale: “Ho scelto di finire con la Capitale perché è qui che tutto converge. A Roma c’è il peggio. Della politica e della mafia, che guadagna sfruttando esseri umani. Questo è il potere più grande che ha. E forse, perché qualcosa cambi, dovremmo iniziare a considerare lo sfruttamento un reato di mafia, come il caporalato. Perché tutti i sistemi criminali si nutrono di schiavi”.