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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Teresa Ciabatti - la cattiva - e la letteratura italiana che è superiore a quella americana

"La letteratura italiana è meglio di quella americana. Alessandro Piperno, Edoardo Albinati, Walter Siti, Mario Desiati non valgono meno di Philip Roth, Jonathan Franzen, Paul Auster, Tom Wolfe. L’Italia, però, è una paese troppo incerto per comprenderlo”.
Teresa Ciabatti ha quarantaquattro anni, una romanzo che si vergogna di aver scritto e uno appena uscito – “La più amata” – probabilissimo candidato al Premio Strega per Mondadori. Anni fa, la definirono: “La peggiore scrittrice italiana”. Oggi: “La migliore”. Ovunque appaia, la moderazione svanisce. “Egoista, anaffettiva, diffidente, incompiuta, ossessionata, pazza”. Degli aggettivi che usa per descriversi ce n’è uno che ha scelto come un’identità: “Cattiva”. Non ti aspetti che al tavolino di un bar del Pantheon, a Roma, si sieda e ordini un succo d’arancia.
Scrivono tutti bene di lei, ora.
Da quando ho iniziato, ho fatto sempre i conti con il fallimento. Ho firmato delle sceneggiature orrende e pubblicato romanzi che non hanno venduto niente. La critica o mi ha distrutta o mi ha ignorata.
Se lo meritava?
Mi sono messa a scrivere in maniera irresponsabile. Non ero pronta. All’università imparavo tutto a memoria. La prima volta che sentii una lezione di Asor Rosa uscii dall’aula. Non capivo nulla. Era troppo difficile per me.
E che fece?
Finii a fare un corso di teatro in un sottoscala di San Lorenzo. Trovai un obiettivo: salvare un ragazzo. Era più grande di me. Veniva dalle borgate. Vestiva male. Era brutto. Ma ci credeva. Credeva veramente di poter fare l’attore. Passavo giornate intere a fargli capire che lo stavano prendendo per il culo. Lo mettevo davanti alla realtà, altro che le idee del cazzo che aveva in testa. Si chiamava Ascanio. Ascanio Celestini.
Bel fiuto.
Sbagliai completamente persona. La fallita ero io, ma preferivo evitare di riconoscerlo.
Fallita... aveva vent’anni.
Scrissi “Adelmo, torna da me” in totale incoscienza. Sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano lo stroncò ferocemente. Fu spietato. Non usò alcun riguardo. E mi salvò. Senza quegli schiaffi, avrei continuato a scrivere cazzatine. Invece, mi misi finalmente a studiare: Dickens, Joyce Carol Oates, Calvino, Elsa Morante, Natalia Ginzburg.
Per “La più amata” è successo il contrario.
È un romanzo nato da un tormento. Mio padre era un medico, un massone, un fascista, membro della P2 di Licio Gelli, di cui era amico. Un giorno, nella nostra villa all’Argentario, lo rapirono. Ci dissero: “Balordi del posto”. Ci credetti, senza farmi alcuna domanda, fino a quando mio padre e mia padre non morirono. Poi, diventò un’ossessione.
Che ossessione?
Dovevo sapere cosa era successo. Chi era mio padre. Se aveva ucciso. Chi aveva ucciso. Perché. Smisi di parlare con mio fratello. Allontanai amici. Non pensavo ad altro. L’unica cosa che m’interessava era la verità.
Non ha scoperto poi molto.
A un certo punto ha smesso di fregarmi del Golpe Borghese, delle trame, dei piani segreti. Mio padre ha addormentato per un anno mia mamma con la cura del sonno. Un’azione enorme, mostruosa, illegale, disumana. Una pretesa di onnipotenza che racconta assai più intimamente il rapporto con il potere di quegli uomini di molti retroscena sulla storia d’Italia.

Siamo nella provincia Toscana, la stessa da cui viene Renzi.

Ma Renzi si è formato in contrasto con quella generazione. Avrà di sicuro incrociato alcuni loro. Conosce quel mondo. Ma non è il suo. Ha tutta un’altra antropologia e cultura politica.
Nel romanzo lei è sempre figlia, nella vita è anche madre.
Credevo di essere nata per fare la mamma. Mi sentivo portatissima. Quando lo sono diventata, mi sono scoperta un disastro. Per anni, non sono riuscita ad accompagnare mia figlia a scuola. Se si fa male, non riesco a soccorrerla: il panico mi blocca. Poi, non lavo. Non stiro. Non cucino. Le faccio solo regali. La riempio di regali.
È immaturità?
Sono diventata adulta tardissimo, scoprendo che esserlo significa smettere di attribuire la colpa di ciò che si è agli altri. Non c’è rapporto di causa effetto: quello che siamo è responsabilità nostra e basta.
Perché non hai mai preso una posizione politica?
Non credo che le cose che penso interessino a qualcuno.
Quelle di Saviano interessano.
Lui conosce l’arte dell’intervento pubblico. Non basta esprimere delle opinioni per diventare come lui. Sono dei cretini quelli che non riconosco che è un grande scrittore. Prima di “Gomorra” non c’era nulla di simile. Ha cambiato la letteratura italiana. Leggano “La paranza dei bambini": è un romanzo strepitoso.
Altri autori che ama?
Non sopporto quelli che dicono che la letteratura italiana è morta. Abbiamo scrittori giganteschi. Piperno, Siti, Nesi, Albinati, Melania Mazzucco. Non c’è una letteratura europea più viva della nostra. Né quella francese, né quella inglese. Siamo persino al di sopra di quella degli Stati Uniti.
E come mai nel mondo tutti riconoscono Carrère, Ian McEwan, Franzen e non, che so, Albinati?
Diamogli tempo. Tutti si precipitano a tradurre ogni americano che esce. Non succede la stessa cosa con gli italiani. Siamo percepiti come un paese periferico. Le nostre opere però non lo sono affatto.

Neanche in Italia questa grandezza è stata registrata.

Ci sottovalutiamo. L’ambiente è piccolo, ci viene difficile immaginare che quello con cui vai a cena la sera possa essere un talento universale. Con Safran Foer è più facile. È distante, inarrivabile, misterioso. Lui sì che può entrare senza problemi nel ruolo del grande scrittore.
Non lo è?
Riconosco il valore, ma odio la sua lingua macchinosa, la sua tendenza a ricattarti con le emozioni.
E italiani sopravvalutati?
Michele Serra. “Gli sdraiati” è un romanzo paternalista, con il punto di vista di una generazione ancora invischiata nei suoi complessi, privo di modernità. La letteratura italiana non è così indietro.