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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Addio Almerighi, pretore d’assalto contro i corrotti

La passione per la giustizia. La speranza di cambiare le cose. E anche la rabbia, quando serviva. Non hanno abbandonato Mario Almerighi fino alla fine. Nonostante la malattia che ieri lo ha piegato. Aveva 77 anni. Con lui se ne va uno dei giudici che hanno dato una svolta alla magistratura italiana, che hanno cercato di fare luce sulle ombre del potere in Italia. A cominciare dagli anni ‘70. Quando Almerighi, nato a Cagliari, sbarcò a Genova e diede vita con i colleghi Carlo Brusco e Adriano Sansa a un’inchiesta che fece scricchiolare la politica italiana: lo scandalo dei petroli. Li chiamavano “pretori d’assalto”, vent’anni prima di Mani Pulite.
Almerighi la ricordava così: “Ci occupammo delle multinazionali del petrolio, italiane e straniere, e della subordinazione della politica al loro potere: si erano comprate un pezzo del Parlamento e a colpi di tangenti si facevano confezionare leggi su misura. Erano gli anni della cosiddetta “austerity”, ci dicevano che c’era poco petrolio, le domeniche dovevamo girare in bicicletta. E intanto io sentivo i manager petroliferi che al telefono davano ordini affinché le petroliere si bloccassero perché, dicevano, “siamo a tappo”: avevano i depositi pieni. E aspettavano che i politici decidessero l’aumento del prezzo. Poi, dopo le perquisizioni, scoprimmo tracce di tangenti per ottenere leggi scritte dai petrolieri”.
Erano giovani Almerighi e i suoi colleghi, e forse proprio questo li rese impermeabili a pressioni, influenze e minacce. Giorni e notti di lavoro, di interrogatori. Ma anche di partite a pallone con i figli piccoli per sfogare la tensione con un tiro: “Gol!”. Eccolo Almerighi, passione per la giustizia e per la vita.
La politica reagì con brutalità. Se la prese con i giudici e le intercettazioni: “Fecero una legge che impediva ai pretori di fare intercettazioni telefoniche”, raccontò Almerighi.
C’era anche chi difendeva i magistrati. Come Sandro Pertini – non a caso Almerighi si dedicò alla fondazione intitolata al Presidente – che lo accolse con Brusco e Sansa nella lavanderia del Senato per evitare di essere spiato e li incitò: “Andate avanti!”. Arrivò l’insabbiamento, ma in Almerighi restò il desiderio d’indipendenza passato come testimone alle nuove generazioni di giudici.
Poi gli anni romani, e Almerighi sempre scomodo. Come quando si occupò di Roberto Calvi fino a sostenere che “il Vaticano aveva pagato per la borsa del banchiere ucciso e i segreti che conteneva”. Ma indagò anche sulla morte di Samuele Donatoni, agente dei Nocs morto durante uno scontro a fuoco tra forze dell’ordine e sequestratori di Giuseppe Soffiantini. Ucciso dai rapitori, così si chiuse subito il caso. Ma Almerighi lo riaprì, fino ad arrivare a esiti sorprendenti: “Ci sono due sentenze definitive che raccontano verità opposte”, raccontò. È una storia di prove perdute e altre comparse dopo mesi, pistole sparite, prove che il cadavere è stato spostato. E una perizia con una nuova pista, poi ignorata: a sparare sarebbe stata una calibro 9 come quella dei Nocs. Almerighi lo raccontò in un libro: Mistero di Stato.
Dopo decenni di lavoro, dopo qualche incomprensione e delusione, il suo desiderio di cambiare lo spinse a scrivere libri: inchieste, romanzi, piece teatrali come l’ultima sull’amico e collega Giacomo Ciaccio Montalto. Il testimone (con Bebo Storti), perché Almerighi in un processo di mafia fu testimone. Ancora una volta scomodo, a ricordare i timori dell’amico per le infiltrazioni mafiose tra gli stessi giudici. Almerighi ne ricavò una denuncia di Giulio Andreotti. Vinse il magistrato. “Dagli anni ‘70 a oggi, non è cambiato nulla”, diceva pochi mesi fa Almerighi. Ma non è un’ammissione di sconfitta. Bastava leggere ieri le decine di messaggi che i magistrati – giovani e anziani – si scambiavano su internet per ricordare Almerighi: “Gente come te ci ha insegnato a essere liberi”.