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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Riforma delle Popolari, la strage dei bancari

I bancari sono una delle categorie professionali che suscita meno simpatie nell’opinione pubblica e quindi nessuno si è mai particolarmente indignato di fronte alla loro rapida decimazione: tra 2017 e 2020 spariranno 25.000 dei 30.000 posti di lavoro nel settore bancario italiano che ne ha già cancellati 60.000 tra 2006 e 2016. Nel loro libro Banche impopolari (Mondadori, in uscita domani), i cronisti di Repubblica Andrea Greco e Franco Vanni, ricostruiscono le storie di risparmio tradito dietro i disastri creditizi finanziari di questi anni ma anche un lato meno esplorato dalle cronache dei quotidiani, quello della fine di un’epoca, quella del lavoro in banca come punto d’arrivo, garanzia di tranquillità e di status. Soprattutto se la banca era una banca popolare, di quelle dove in assemblea tutti i soci valgono uguale a prescindere da quante azioni hanno. E dove i dipendenti, ben organizzati da sindacati e associazioni, hanno sempre pesato molto.
“Fino ai tagli del periodo 2008-2012, in Popola – re di Milano c’era chi percepiva la diciassettesima mensilità, come previsto dal contratto integrativo”, racconta a Greco e Vanni Patrizia Robotti, ex dipendente della Banca di Legnano, nel 2012 con l’acquisizione dell’istituto è diventata dipendente (e sindacalista per la First Cisl) di Banca popolare di Milano. spiega. In Bpm, oltre ai dodici stipendi annuali e alla tredicesima, ai dipendenti di Bpm erano garantiti compensi per altri quattro mesi virtuali, che nel linguaggio della contrattazione venivano chiamati rispettivamente “produttività”, “indennità invernale”, “premio di rendimento” (una parte era in realtà distribuita a pioggia) e “retribuzione integrativa aziendale”.
Poi quel mondo ha cominciato a finire. Già prima della riforma voluta dal governo Renzi – su input della Banca d’Italia – due anni fa che ha cercato di forzare le più grandi tra le banche popolari a diventare società per azioni e quotarsi in Borsa e ha chiuso per sempre una stagione.
La Popolare dell’Emilia Romagna – 11.459 dipendenti – ha tagliato 536 posti negli ultimi tre esercizi, e con il piano 2017 conta di mandare a casa altre 585 persone. Ubi Banca, con 17.511 addetti, in tre anni ha accompagnato alla porta 1860 lavoratori, con prepensionamenti incentivati e pensionamenti. Il piano industriale 2020 prevede altre 2750 uscite. La Popolare di Bari che, 1928 dipendenti, negli ultimi tre anni ha previsto 151 fra pensionamenti e prepensionamenti incentivati. “È inutile dire che le criticità dell’annata 2016, unite a una serie di operazioni di aggregazione e ristrutturazione – anche derivate dalla riforma del governo sul credito mutualistico –, hanno prolungato la dieta bancaria nazionale, che prosegue e anzi si accentua”, scrivono Greco e Vanni nel libro.
Tra Verona e Milano il gruppo nato dalla fusione fra Banco popolare e Bpm ha annunciato almeno 1800 fra prepensionamenti e uscite volontarie, che si sommano alle 1700 uscite dalle due banche avvenute nell’ultimo anno, o in procinto di essere compiute.
Poi ci sono le due grandi malati del sistema popolari: Veneto Banca e Popolare di Vicenza, “tanto rumorose nella caduta quanto finora timide nel cercare di arginarla”, scrivono i due cronisti. Veneto Banca fra il 2013 e il 2016 ha prepensionato appena 118 lavoratori. Entro il 2018 vuole tagliare 360 dei suoi 5638 dipendenti. La Popolare di Vicenza in tre anni ha mandato via 102 dipendenti con prepensionamenti ed esodi volontari. Nel piano 2020 prevede l’uscita di 575 lavoratori prepensionabili, oltre a 605 esuberi. L’agonia dei bancari veneti, insomma, pare solo all’inizio.