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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Il futuro, in remoto, dell’ospedale

Benvenuti nell’ospedale del futuro. Si sarebbe potuto chiamare anche così il Med in Israel 2017, la conferenza svoltasi a Tel Aviv dal 6 al 9 marzo, organizzata dai ministeri degli Esteri, dell’Economia e della Salute insieme all’Istituto per il commercio estero e nella quale, come quasi sempre in queste occasioni, l’intero mondo della ricerca biomedica israeliana si è ritrovato per fare il punto sui progressi raggiunti, ma anche per riflettere sui tumultuosi cambiamenti in atto.
Una parola ha prevalso sulle altre: personalizzazione, cioè medicina personalizzata, da mettere in pratica in un ospedale incentrato non sulle malattie, ma sulle persone. E non certo o non solo per andare dietro a uno slogan tanto di moda quanto, a volte, vuoto, ma perché, che lo si voglia o no, la medicina di oggi è già così. Sono le strutture e l’organizzazione in generale a essere in ritardo.
«Da una parte c’è la demografia – ha esordito Gadi Rennert, direttore del National Cancer Institute israeliano e docente di medicina al Technion, il politecnico di Haifa -. Quale che sia la zona geografica osservata, comprese quelle un tempo considerate in sviluppo come l’India, la Cina o i grandi paesi africani (l’Africa, insieme alla Cina, è presente in forze al meeting, ndr), la demografia e l’epidemiologia dicono tutte la stessa cosa: la vita media continuerà ad allungarsi e, con essa, cresceranno i milioni di persone colpite da malattie croniche quali quelle cardiovascolari, il diabete e il cancro, sempre più trattabili. Ci saranno centinaia di milioni di persone da curare, e non è pensabile farlo in un ospedale tradizionale. Dall’altra parte c’è la genetica, che continuerà a far crescere le nostre conoscenze specifiche e a darci strumenti nuovi. È chiaro che, in questo scenario, un centro di cura basato su esami strumentali fatti per individuare la patologia un po’ alla cieca, magari aspettando il responso di un laboratorio genetico esterno, è del tutto anacronistico e inadeguato».
L’ospedale del passato, spiega Rennert, era incentrato sulla malattia: il malato, tutto sommato, era un dettaglio, un numero in una statistica che diceva che la tale malattia si curava all’incirca in un certo modo. Ma quando la tecnologia rende possibile l’analisi dell’intero genoma del singolo paziente in tempi e a costi accettabili, la statistica ne esce fortemente ridimensionata, quanto a potere decisionale. «E l’ospedale – prosegue Rennert – diventa un’altra cosa. Continuerà a essere il luogo dove si fanno gli interventi irrinunciabili come quelli chirurgici, ma il suo baricentro diventerà il malato, la sua storia, e soprattutto i suoi geni. E di conseguenza i percorsi saranno imperniati sulle analisi genetiche, e attorno a quel tipo di informazioni ruoterà tutta l’organizzazione del percorso di diagnosi e cura».
In parte tutto ciò è già realtà, e lo si vede plasticamente in occasioni come Med In Israel, perché il cambiamento sta stimolando la creatività dei bioingegneri come mai prima d’ora, e le startup propongono soluzioni spesso molto ingegnose per risolvere qualunque tipo di problema, dalla diagnosi al monitoraggio, dall’assistenza domiciliare alla telemedicina e così via. Si provi, per esempio, come ha invitato a fare Itamar Raz, direttore dell’Israeli National Council of Diabetes, a mettersi nei panni di un diabetico 3.0. «Il controllo della sua glicemia – dice – avviene h24 attraverso sensori che possono essere inseriti sulla cute, sottocute, ma anche nell’orecchio esterno, o in una lente a contatto, e che assicurano un controllo immensamente più preciso rispetto alle punture del dito. Il diabetico poi, tramite un’app, manda i dati al cloud e da lì questi arrivano al diabetologo, che dedica una parte significativa del proprio tempo al rapporto con i malati via terminale e che arriva a parlare con quello specifico paziente dopo aver analizzato la situazione della giornata e in un arco temporale molto più ampio, magari di anni». Si tratta però di un dialogo riservato alle situazioni critiche o particolari, perché per molte delle più normali come un piccolo sforamento dei valori di glicemia o di farmaci ci ha pensato un messaggio automatizzato ad avvisare il paziente; un algoritmo aveva infatti effettuato una prima scrematura dei suoi dati in arrivo, e attivato un primo livello di allerta. Infine, il paziente svolge da solo, a casa, alcune delle operazioni più semplici come la cura di un’ulcera del piede non grave, sotto la guida di un tutorial apposito. «Solo organizzando questo tipo di processo – conclude Raz – possiamo pensare di farci carico di migliaia di pazienti per medico: non ci sono alternative».
Naturalmente tutto ciò pone una questione enorme di privacy, di cui ha parlato Gil Segal, bioeticista del Comitato nazionale di Bioetica israeliano e docente alla School of Low dell’Università della Virginia. Chi gestisce questa mole sterminata di dati, e come si fa a essere certi che essi non finiscano in mani sbagliate e vengano per esempio usati per introdurre la medicalizzazione di persone in realtà sane, o indirizzare le terapie verso un prodotto specifico? «L’unica soluzione è l’umanità: l’uomo deve sempre essere davvero, e non solo in teoria, al centro. La tecnologia costituisce l’unico modo per fronteggiare la situazione, ma alla fine del dato ci devono essere l’uomo-paziente, che deve diventare responsabilmente consapevole delle scelte che lo riguardano, e l’uomo-operatore (medico, infermiere o figura analoga), che deve mettere il paziente nelle condizioni appropriate a compiere tali scelte. Dobbiamo tutti capire che la medicina è già cambiata, non può prescindere dalla tecnologia, ma sta a noi trasformare quest’ultima in Human Information Technology”.