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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Crescita, conti, banche: le «incompiute» che frenano l’Unione

Dal completamento dell’unione bancaria e del mercato unico, alla riforma della governance economica. Sono molteplici i dossier in lista d’attesa per un’Europa che prova a rinascere dalla firma apposta ieri in calce alla Dichiarazione di Roma in Campidoglio, dai 27 capi di Stato e di Governo. Cammino tortuoso ma obbligato, se si vorrà rispondere con i fatti alla crisi in cui è piombato il Vecchio Continente, stretto da un lato dall’emergenza migranti e dal terrorismo, dall’altro dalla necessità di voltare finalmente pagina in direzione di politiche economiche che pongano al centro il sostegno alla crescita e all’occupazione.
Unione bancaria
Arduo – si obietterà – affrontare il capitolo del completamento dell’unione bancaria in un anno elettorale, con Francia e Germania chiamate al voto. E tuttavia il segnale deve essere forte e univoco. Alla vigilanza unica in capo alla Bce e al meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, va affiancata la “terza gamba” della garanzia europea sui depositi. Il dossier si è incagliato sul tema centrale della “condivisione e riduzione” dei rischi, mentre si comincia a discutere in parallelo dell’eventuale trasformazione del fondo salva-Stati (Esm) in un vero Fondo monetario europeo. Si cercano possibili vie di compromesso, possibili ma solo a patto che emerga una chiara e univoca volontà politica, che sul terreno della tutela del risparmio riesca a intercettare quel malessere diffuso facile preda di ricette populiste e sovraniste.
Governance economica
Qui si entra in un campo di fondamentale importanza per il futuro dell’Unione europea a ventisette. Il dossier si intreccia con il completamento del mercato unico, il cui perimetro sarà comunque da ridefinire nei due anni (e oltre) che scatteranno dal prossimo 29 marzo, quando Londra avvierà la procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’uscita dall’Unione europea. Stando al timing fissato dall’agenda europea, proprio nel 2017 dovrebbe avviarsi l’istruttoria per l’aggiornamento del Fiscal compact, e con esso della complessa architettura tecnico/contabile eretta negli anni della crisi a sostegno della disciplina di bilancio europea (dal Six Pact al Two Pack). Regole stringenti varate in ossequio all’ortodossia rigorista imposta dalla Germania, con annesso il vincolo del pareggio di bilancio e sanzioni semi automatiche in caso di mancato rispetto dei target fissati dal Trattato di Maastricht. Revisione da effettuare senza por mano ai trattati. Un cammino che si è cominciato a intraprendere, ma che pare al momento a dir poco incerto. È il caso della modifica del parametro fondamentale cui guardano le regole europee, quello del deficit strutturale, calcolato al netto delle variazioni del ciclo economico e delle una tantum. Nell’Ecofin informale di Amsterdam del 23 aprile dello scorso anno, anche su pressione italiana e di altri sette governi (Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Portogallo, Repubblica Slovacca, Slovenia e Spagna) si è preso finalmente atto che occorra individuare indicatori più semplici e manovrabili (come quello della spesa). Un compito da affidare al futuro ministro delle Finanze Ue, se mai si riuscirà a istituirlo, accanto all’eventuale riscrittura dei parametri di Maastricht (deficit al 3%, debito al 60% del Pil) che richiederebbe, questa sì, una revisione dei Trattati?
Pil potenziale e output gap
Argomento sensibile in Italia, chiamata in queste settimane a correggere il proprio deficit strutturale dello 0,2% del Pil, proprio sulla base di un indicatore sintetico (l’output gap) che misura la differenza tra Pil potenziale e Pil effettivo. I diversi criteri di calcolo relativi al Pil potenziale sono da anni oggetto di acceso confronto tra Roma e Bruxelles, e le stime di cui nuovamente darà conto il prossimo Def (relative a tutti i fattori produttivi cui si può far leva per accrescere il potenziale di crescita dell’economia) divergono da quelle dei tecnici della Commissione.
Flessibilità e investimenti
È vero che l’Italia ha fruito di flessibilità per riforme, investimenti ed eventi eccezionali per oltre 19 miliardi nel biennio 2015-2016, e tuttavia soprattutto con riferimento alla leva fondamentale degli investimenti resta aperta la discussione (per ora infruttuosa) sull’eventuale scorporo totale o parziale delle relative spese dal calcolo del deficit. La golden rule è ormai solo oggetto di dispute accademiche. Si è scelta la strada della flessibilità (entro un massimo dello 0,5% del Pil) attraverso il meccanismo del cofinanziamento. L’urgenza di ricette coraggiose in grado di far leva sulla domanda aggregata richiederebbe risorse decisamente più ingenti, anche rispetto al “volume di fuoco” del piano Juncker (che comunque resta una prima base di partenza).
Politica industriale e commercio estero
È la sfida decisiva, quella che passa da una vera politica industriale in grado di attivare investimenti pubblici e privati. Se ne discute da anni. Il Patto per il rilancio della competitività industriale europea (Industrial compact) non ha fatto finora grande strada. Una partita che si intreccia con gli incerti orizzonti del commercio estero (si veda l’articolo a fianco), ora che le minacce protezionistiche provengono dallo storico alleato di oltreoceano.