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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Hong Kong alle urne ma il Dragone divora i sogni e i primati della metropoli

HONG KONG Mille votanti, duemila poliziotti, 500 manifestanti: lo dicono i numeri, e prima ancora dello spoglio, che in questo voto i conti non tornano. I giovani democratici invadono le strade per protesta: come si fa a chiamarle elezioni se alle urne possono andare solo 1194 persone su 7 milioni di abitanti? Non sarà il bis della rivolta di tre anni fa, che chiese inutilmente il suffragio universale, ma le previsioni intanto danno pioggia: cioè bel tempo per la rivoluzione degli ombrelli.
C’era una volta la regione semiautonoma di Hong Kong, nata giusto 20 anni fa, 1 luglio 1997, dal passaggio dell’ex colonia dalla Gran Bretagna alla Cina, che doveva garantire mezzo secolo di pseudo-indipendenza. Adesso, comunque vada, l’elezione del “chief executive” sarà un successo per il Dragone: che a dispetto delle leggi cittadine qui ha già fatto sparire cinque librai democratici e un miliardario un po’ troppo disinvolto. «Carrie Lam o John Tsang? A Pechino va bene qualsiasi candidato: tanto sono tutti obbedienti» dice a Repubblica Jason Ng, giovane professore dell’università di Hong Kong e autore del nuovissimo “Umbrellas in Bloom”, la prima vera storia del movimento spento dai gas della polizia. Per la verità in lizza ci sarebbe anche un terzo uomo, Woo Kwok-hing, ma è un vecchio giudice – brava persona – messo lì come paravento. Tutti danno Carrie Lam eletta prima ancora del voto: è la favoritissima suggerita dalla madrepatria, il vecchio che avanza, l’ex numero due di Leung Chun-ying, il leader attuale, che per conto di Pechino stroncò la rivolta ma proprio Pechino ha costretto ora a non ricandidarsi per non esacerbare ancora di più gli animi. Anche John Tsang è un navigatissimo uomo di governo, ma ha studiato al Mit di Boston, ha avuto anche la cittadinanza Usa, e si posiziona adesso come pro-democratici. Jason il prof dice che proprio per questo fino all’ultimo ci ha scommesso su. «Intanto perché checché se ne dica ha anche lui l’appoggio del presidente Xi Jinping. E poi perché farlo vincere sarebbe il capolavoro di Pechino: quale migliore prova per lasciar credere che questa città continua a essere autonoma?». Piano diabolico: che non riconosceresti nelle paludatissime movenze del candidato. Che Hong Kong sarebbe la sua? «Una città che ritrovi fiducia nelle istituzioni, nell’unità della società, e che ridia la speranza di un futuro ai giovani». Quindi è pronto a lavorare anche con i ragazzi che protestano? «Sono pronto a lavorare con ogni settore della società» risponde il tenero Tsang quando lo incalzi intrufolandoti nel capannello dei cronisti locali: «Ogni spaccato dello spettro politico».
Il vero spettro, per la verità, è quello economico. Nel 1997, riassume un’inchiesta del Guardian patrocinata dal Pulitzer Center on Crisis Reporting, il reddito medio a Hong Kong era 35 volte quello della Cina: ma adesso l’economia cinese è 11 volte più ricca di allora. La metropoli che una volta le serviva da traino oggi serve sempre meno. Anzi per piegare la sua ambizione Pechino ha cominciato anche a sgonfiare la sua Borsa: da Wanda in giù tanti big preparano il delisting per trasferirsi a Shanghai o Shenzhen. «I tempi sono cambiati, ora è la Cina a splendere» ha detto chiaro e tondo ai deputati di Hong Kong calati nella capitale per l’apertura del Parlamento il potentissimo Zhang Dejiang, presidente del Congresso nazionale del popolo e numero tre nella nomenklatura: «Entro due anni rischiate di venire sorpassati da Shenzhen». Cioè la metropoli dirimpettaia di qui, che in meno di quarant’anni Pechino ha gonfiato da 30mila a 12milioni di abitanti. «Ma è vero fino a un certo punto» dice a Repubblica il professor Danny Gittings, l’autore della più usata introduzione alla Basic Law, la mini- costituzione cittadina. «Le leggi di Hong Kong sono ancora una sicurezza per tanti big della finanza mondiale: che infatti continuano a fare sede qui, e non sulla terraferma».
Aspettando il sorpasso, c’è la tragedia di chi indietro si ritrova già. Il 10% più ricco della popolazione guadagna 29 volte di più di chi sta all’opposto della classifica, i 18 uomini d’oro della metropoli siedono su un patrimonio di 1.390 miliardi di dollari, 165 miliardi di euro, mentre oltre un milione di persone non ha di che tirare a campare: è la realtà fotografata da un allarmante rapporto dell’Oxfam. «Ma a preoccupare è soprattutto il restringersi della mobilità sociale», ti suggerisce John Chan Wing Kin, il preside di Tang King Po, una delle sei scuole salesiane che fanno studiare gratuitamente quasi 5mila studenti.
Anche per questo tornano a protestare in piazza i ragazzi di Demosisto, la formazione guidata da Joshua Wong e nata dalle ceneri della sua rivoluzione degli ombrelli. Partito di lotta e di governo: «Noi scendiamo in strada ma il nostro deputato va comunque alle urne, anche se non sceglierà nessuno dei tre candidati. Questa politica non ci rappresenta – dice il giovane Wong a Repubblica – ma il voto è l’essenza della democrazia: e noi votiamo per senso di responsabilità».
Peccato che in questo pianeta del tutti contro tutti perfino il movimento democratico è diviso. Una fazione vuole impedire ai 1194 votanti perfino di recarsi alle urne, e per questo oltre a mobilitare 2mila poliziotti la città tiene in stand-by tutti i traghetti: se le proteste bloccano le strade, gli elettori arrivano via mare al Convention and Exhibition Centre dove fino a ieri splendevano i Picasso, i Basquiat e i Fontana per i ricchi acquirenti asiatici accorsi all’Art Basel.
Mille votanti, 2mila poliziotti, 500 manifestanti. E la zona dove la sicurezza è stata più rafforzata, scopri, non è neppure quella dove si terranno le elezioni, ma il quartiere di Sai Wan: dove ha sede cioè la rappresentanza di Pechino. E non ci vuole nessun esperto, stavolta, per spiegarti perché.