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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Parte dal 1917 il primato dell’America

Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna, Russia e Italia contro gli Imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria; ma non lo fecero come alleati, bensì come «potenza associata», una differenza linguistica e giuridica che sottolineava una profonda diversità di vedute e una continuità ideale con la neutralità proclamata dal presidente Woodrow Wilson allo scoppio della guerra nel luglio 1914. Neutralità necessitata dal fatto che il Paese era profondamente diviso sull’entrata in guerra; ma rinsaldata da una specifica cultura politica diversa da quella degli europei legati all’equilibrio di potenza e alle sfere di influenza.
Il neutralismo di Wilson non significava isolazionismo. Convinti a ragione dell’ormai raggiunta interdipendenza economica del mondo – oggi gli storici parlano di prima globalizzazione per l’inizio del Novecento —, i predecessori di Wilson, Theodore Roosevelt e Howard Taft, avevano perseguito un internazionalismo che, ritenendo ormai obsoleta la guerra, ne vedeva il pacifico, moderno sostituto nel libero commercio internazionale guidato dalle «potenze civilizzate». In questo contesto gli Usa godevano, per l’opinione pubblica, di una posizione peculiare perché avevano la missione provvidenziale di mostrare la via della libertà ai popoli. Era un’ideologia che sorreggeva la crescente potenza americana; ma che i trattati con Londra e Parigi del 1911 per risolvere le controversie internazionali con l’arbitrato parvero tramutare in realtà. Lo scoppio della guerra la annientò, e gli Stati Uniti si ritrassero.
Per tre anni Wilson tenne il Paese fuori dal conflitto cercando di promuovere la pace fra i contendenti; ma il suo neutralismo attivo divenne sempre meno praticabile. Davanti alla guerra, l’internazionalismo economicistico in cui anch’egli aveva creduto, e che consciamente sminuiva il ruolo della politica, si dimostrava impotente. Suo merito fu elaborarne un altro che manteneva, invece, la politica al centro. Lo abbozzò nel gennaio 1917 con l’idea della «pace senza vittoria» garantita da un’organizzazione internazionale e lo sviluppò con i «14 punti» del gennaio 1918, che divennero base di discussione alla conferenza di pace di Versailles del 1919. Il fulcro della sua visione era l’impossibilità in un mondo interconnesso di una pace imposta da uno o più Stati, da cui faceva discendere due proposte fondamentali, l’autodeterminazione dei popoli e un patto fra tutti gli Stati garantito da un’istituzione mondiale, la Società delle Nazioni, chiamata a salvaguardare la loro sovranità e integrità. Sappiamo che a Parigi Wilson dovette cedere su molti punti per la granitica volontà dei vincitori di spartirsi le spoglie dei vinti e per l’impossibilità pratica di realizzare il principio «un popolo uno Stato». Sappiamo, però, anche che fu il Senato americano a non ratificare il risultato essenziale che Wilson aveva strappato, la Società delle Nazioni, e a lasciarla con ridotta capacità di incidere per l’assenza del Paese più importante.
Un tale esito e la complessa personalità del presidente, vieppiù isolato a Versailles e inutilmente rigido nella difesa dei suoi principi in Senato, hanno portato ad accusare Wilson di ingenuità e utopico idealismo. Accusa che investe solo la superficie della sua azione, non la sua visione politica che con F.D. Roosevelt divenne il fulcro della politica estera americana e tale è rimasta, declinata in molti modi, fino, pare, all’avvento di Donald Trump. Un internazionalismo liberale wilsoniano al cui centro per Roosevelt erano la sicurezza e la pace assicurate dalle Nazioni Unite, nonché lo sviluppo economico promosso da istituzioni come Fondo monetario e Banca mondiale. Garanti di tutto erano, naturalmente, gli Stati Uniti che le egemonizzavano entrambe, oltre ai valori americani e all’ American way of life.
Wilson e il wilsonismo, pertanto, riproposero in chiave politica originale la visione americana di primo Novecento di un mondo interconnesso retto dalle o dalla «nazione civile», nonché la primogenitura del mercato nel determinare i contenuti dei valori politici di libertà e democrazia. Il che porta a concludere che nel 1917 gli Stati Uniti offrirono a un’Europa inconsapevole del suo tramonto una proposta politica e culturale ideologica, ma sagace – alternativa a quanto si andava delineando in Russia – che ha anche consentito al Vecchio Mondo, dopo il suo definitivo suicidio nella Seconda guerra mondiale, di sentirsi mosca cocchiera pur essendo al traino del peregrinare del mastodonte americano.