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 2017  marzo 26 Domenica calendario

«I demoni» nella mia Francia. Basta poco per esplodere

Cinque maggio 2012. Al secondo turno dell’elezione presidenziale Nicolas Sarkozy affronta il candidato socialista Idder Chaouch, musulmano e favorito, una specie di Barack Obama francese. Nelle stesse ore a Saint-Étienne la grande e caotica famiglia cabila Nerrouche si riunisce per la festa di matrimonio di Slim, ragazzo dalla sessualità incerta ma destinato comunque a sposare una ragazza di origine algerina. La fantapolitica si incrocia con la tribù dei Nerrouche tramite Krim, diciottenne sbandato che finirà per lasciarsi tentare dal cugino Nazir e dal terrorismo, commettendo un attentato.
Il primo libro della fortunata saga in quattro volumi dei Selvaggi esce ora in Italia per Mondadori, e «la Lettura» ha incontrato il suo autore Sabri Louatah via Skype: vive a Chicago, lontano da una Francia depressa e ossessionata dal rapporto con i musulmani. Prima di passare al francese Louatah comincia parlando in italiano, «quando ero più giovane avevo un amico fiorentino e ho passato molto tempo in Italia, è diventata la mia seconda patria». È uno scrittore cosmopolita e poliglotta che si definisce più europeo che francese.
«I selvaggi» è uscito in Francia all’inizio del 2012. Nel frattempo il Paese è cambiato?
«All’epoca non c’erano ancora stati gli attentati terroristici. Due mesi dopo l’uscita del libro, a marzo, Mohamed Merah ha compiuto la strage di Tolosa, uccidendo tre soldati e quei bambini ebrei nella scuola. Si è creata subito una forte tensione, qualche ragazzino nelle periferie ha scritto “viva Mohamed Merah” e poi l’allora presidente Sarkozy ha strumentalizzato l’attentato in campagna elettorale. È stato l’inizio di un dramma che dura tuttora».
Con la scena finale dell’attentato contenuta nel libro è stato profetico.
«Senza volerlo, la mia intenzione era descrivere un pezzo di società francese a partire dalla storia di una famiglia, i Nerrouche. L’idea dell’attentato mi è venuta pensando a che cosa avrebbe potuto fare questo ragazzo, Krim, pieno di odio e risentimento. In Francia esistono dei ghetti che concentrano tutte le discriminazioni, il crimine, la miseria, l’assenza di qualsiasi opportunità economica. La Francia è il solo Paese al mondo in cui il 31 dicembre di ogni anno migliaia di auto vengono date alle fiamme. Le rivolte del 2005 nelle banlieue mi hanno segnato, stavo leggendo I demoni di Dostoevskij dove si racconta di una società che esplode, che prende fuoco, come dice Dostoevskij il fuoco si vede fuori ma è nella testa. Io sentivo che sarebbe bastato un attentato perché il fuoco attecchisse».
E ha immaginato un presidente musulmano, prima di Houellebecq.
«Ho pensato a un presidente che incarnava una forma di speranza e di riconciliazione nazionale, Chaouch che è un po’ Barack Obama. Michel Houellebecq ha immaginato un presidente musulmano che sottomette la popolazione bianca. L’incubo dei bianchi è essere rimpiazzati dai musulmani ma credo che non succederà mai, anche solo per una questione di numero, gli islamici in Francia sono troppo pochi. Io sono ateo ma sento comunque una solidarietà con i musulmani di Francia: non passa giorno senza che venga rovesciata loro addosso ogni genere di colpa».
Perché ha lasciato la Francia per trasferirsi negli Stati Uniti?
«Sono venuto negli Stati Uniti perché mia moglie è qui e adoro l’America e la lingua inglese, in questo momento sto scrivendo un romanzo in lingua inglese. Ma sono partito anche perché non vedevo un grande avvenire in Francia».
Come mai?
«È un Paese spaccato, tormentato dall’ossessione identitaria, dal chiedersi continuamente “chi siamo?” domandando dimostrazioni di lealtà a immigrati in Francia da tre generazioni. Quando avevo 15 anni leggendo Nietzsche mi sono fatto un’idea della religione come di una cosa stupida, con quella intransigenza che si ha da adolescenti. Ho associato la religione a una forma di spirito un po’ sempliciotto che avevano i vecchi della mia famiglia. Ma se fossi adolescente oggi in Francia credo che sarei obbligato a scegliere il mio campo. Dovrei decidermi, sto dalla parte dei musulmani o dei francesi? È questa tragedia che non voglio imporre ai miei figli, se ne avrò».
Ma adesso in America si ritrova con il presidente Trump.
«È vero, ma l’America è un Paese immenso, vivo a Chicago che è una città democratica, credo di non avere incontrato nessuno che ha votato Trump. E preferisco il modello multiculturale anglosassone a quello francese, che consiste nel dire “se volete essere dei buoni francesi dovete assimilarvi”. Qui in America nessuno mi chiede da dove vengo. Anche se ho la barba lunga, che mi lascio crescere non per motivi religiosi ma perché lavoro talmente tanto che non ho tempo di radermi».
Di che cosa parla il romanzo in inglese?
«È un libro e una serie tv allo stesso tempo, che non parla di Francia».
«I selvaggi» ha uno stile molto nervoso, vivo, pieno di dialoghi. Quali sono i suoi modelli?
«Ho letto molto i russi e gli scrittori francesi fino a Proust, ho una grande ammirazione per il romanzo popolare, soprattutto Dumas e Balzac. Ma detto questo l’autore che mi ha influenzato di più è Philip Roth. Quando volevo diventare scrittore e leggevo dei romanzi francesi contemporanei, i protagonisti erano quasi sempre figli della borghesia parigina che raccontavano le loro storie d’amore. Non mi interessava. Vivevo a Saint-Étienne tra i cabili, i berberi arrivati oltre cinquant’anni fa dall’Algeria. E poi il francese letterario spesso è troppo distante da quello parlato. Gli scrittori ebrei americani, da Saul Bellow a Philip Roth, mi hanno mostrato la possibilità di scrivere di un’esperienza individuale, diversa, in un Paese cattolico come la Francia. Di Roth preferisco i primi romanzi un po’ matti, come Operazione Shylock, ai capolavori successivi. Poi di recente ho adorato Purity di Jonathan Franzen».
Preferisce scrivere il romanzo o la serie? Quale rapporto c’è tra le due forme?
«I grandi sceneggiatori delle serie hanno portato a un livello di eccellenza l’arte di alternare i punti di vista, la mia serie preferita di tutti i tempi è i Sopranos. Scrivere per le serie è una cosa molto tecnica, bisogna conoscere la fine, ogni personaggio ha quattro atti... Ma il romanzo mi sembra più ricco, l’atto di ridurre un’idea in parole è più estremo del racconto per immagini, davanti alle quali siamo un po’ passivi. In Francia il romanzo tende a essere pubblicato da Gallimard e a essere lungo 250 pagine. Con tutto quel che si può raccontare... Nelle serie ci sono enormi limitazioni oggettive legate ai costi, nel romanzo invece se voglio mettere un cammello in una scena posso farlo, e mi chiedo come è possibile che con tutta questa libertà ci riduciamo alla piccola esperienza personale... Il romanzo è minacciato dalle memorie intime, dal guardarsi l’ombelico. Mi sembra molto triste. Bisogna andare al di là, su terreni sconosciuti. E se proprio si racconta la propria esperienza allora osare, esagerare».