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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Un milione per Francesco. «Abbracciate i confini»

MILANO I più anziani lo chiamano ancora «la Trecca», un nome che evoca i racconti mitici della vecchia mala milanese, la città di fumo e fabbriche di Testori. Anche la nebbia che all’alba precede l’arrivo del Papa sfuma tra i palazzoni tirati su negli anni Settanta e i treni delle Nord come un omaggio alla tradizione. Ma tutto è cambiato, viviamo un tempo smarrito nel quale «si specula sulla vita, il lavoro, la famiglia, si specula sui poveri e sui migranti, sui giovani e sul loro futuro», e la «memoria» che richiama Francesco risale ben oltre, all’origine.
«La Chiesa ha sempre bisogno di essere restaurata», dice, come la Madonna risistemata dalla parrocchia che lo accoglie alle Case Bianche assieme a una sintesi della città multietnica, i vecchi abitanti del quartiere e i vecchi migranti mescolati ad asiatici, arabi, rom e sinti, sudamericani che hanno agghindato i bambini con i vestiti tradizionali e famiglie musulmane che sollevano i figli e si uniscono al «Fran-ce-sco!» di benvenuto.
Anche l’evento «più importante della nostra storia, l’Annunciazione della nascita di Gesù a Maria» avvenne «in un luogo sperduto della Galilea, una città periferica con una fama non particolarmente buona». Per questo bisogna «fare memoria», guardare «il nostro passato per non dimenticare da dove veniamo» e «tutto quello che hanno passato i nostri avi per giungere dove siamo oggi», i nonni che talvolta hanno visto «la loro meritata fama di laboriosità e civiltà inquinata da ambizioni sregolate».
Francesco lo scandirà nel pomeriggio, davanti a un milione di persone, nella Messa al Parco di Monza: «Milanesi, sì, ambrosiani, certo, ma parte del grande Popolo di Dio, un popolo formato da mille volti, storie e provenienze, un popolo multiculturale e multietnico, una delle nostre ricchezze. È un popolo chiamato a ospitare le differenze, a integrarle con rispetto e creatività e a celebrare la novità che proviene dagli altri; è un popolo che non ha paura di abbracciare i confini, le frontiere, o di dare accoglienza a chi ne ha bisogno, perché sa che lì è presente il suo Signore».
Abbracciare i confini. Maria che corre da Elisabetta dopo l’Annunciazione, dice Francesco alla Trecca, rappresenta «la Chiesa che non rimane nel centro ad aspettare ma va incontro a tutti nelle periferie, anche ai non cristiani, anche ai non credenti, e porta a tutti Gesù, l’amore di Dio fatto carne, non per fare proselitismo, no!, ma per accompagnarci nel cammino della vita». La visita nelle Case Bianche a una moglie che accudisce il marito malato, un anziano, una famiglia musulmana. Poi il saluto ai detenuti di San Vittore, uno ad uno, il pranzo in carcere, «in voi vedo Gesù». E, in mezzo, l’incontro in Duomo con sacerdoti e religiose, decisivo.
Perché è qui che il Papa ripete la sua idea di Chiesa e definisce la Evangelii Nuntiandi «il più grande documento pastorale del dopo Concilio»: è l’esortazione nella quale «il grande Paolo VI» diceva nel ’75 che «la rottura tra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca». Francesco invita ad essere «sale e lievito» e non temere la condizione di «minorità» dei cristiani, «non ho mai visto un pizzaiolo che per fare la pizza prenda mezzo chilo di lievito e 100 grammi di farina, no, basta poco lievito». È un bene che ci siano sfide, «si devono prendere come il bue, per le corna!». Evitano che la fede diventi «ideologica» e quindi rigida, chiusa. «Prendere il largo» nel proprio tempo senza l’ansia della pesca, «è il Signore che prende i pesci».
Montini scriveva che «occorre evangelizzare con la testimonianza». Francesco avvicina le persone, le abbraccia, bacia i bambini, e non ha paura di mostrarsi «normale» come quando, alle Case Bianche, fa una sosta in uno dei bagni chimici sistemati per i fedeli. Giornata di sole, decine di migliaia di persone lungo le strade, in piazza Duomo. E certo colpisce vedere Bergoglio seduto nella cattedrale accanto al cardinale Scola, l’altro candidato all’ultimo Conclave, mentre distingue tra l’«unità che viene dallo Spirito» e la cattiva «uniformità», e spiega che «la Chiesa è Una nelle differenze». Un modello «che ci aiuta a leggere il mondo contemporaneo, senza condannarlo e senza santificarlo».
Come un’indicazione del prossimo successore di Ambrogio, sillaba: «Il primo compito di un vescovo è la preghiera, il secondo annunciare la Parola». Testimonianza, vicinanza. Si tratta di aiutare la gente a «discernere»: i ragazzi, ad esempio, «sono esposti ad uno zapping continuo» in Rete ma «ci piaccia o no, è il mondo in cui sono inseriti ed è nostro dovere come pastori aiutarli ad attraversarlo». Anche i ragazzini non hanno tregua, esclama Francesco agli ottantamila cresimati che lo salutano al Meazza: «Hanno anche bisogno di giocare, di divertirsi, di dormire. Ci sono agende di bambini che sembrano più quelle di un imprenditore!».
La gente è smarrita: «Tutto sembra ridursi a cifre, lasciando che la vita quotidiana di tante famiglie si tinga di precarietà e insicurezza. E mentre il dolore bussa a molte porte, la speculazione abbonda». Qui sta il compito della Chiesa. Non «occupare spazi» di potere, ma accompagnare: «Scegliete le periferie, risvegliate processi, accendete la speranza spenta e fiaccata da una società che è diventata insensibile al dolore degli altri».