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 2017  marzo 26 Domenica calendario

Ambientalisti e comitati bloccano un’opera al giorno

La pubblica amministrazione inefficiente e la burocrazia che blocca tutto. Le tasse troppo alte. La lentezza della giustizia civile e i tempi (biblici) per il recupero dei crediti. Le regole vetuste sul mercato del lavoro e la scarsa concorrenza fra le imprese. Le infrastrutture carenti e la criminalità organizzata. Le ricerche e gli studi più o meno autorevoli chiudono qui, di solito, l’elenco dei motivi per cui gli investimenti esteri nel nostro Paese sono sempre meno. O, per dirla in maniera più diretta, per motivare la fuga dei colossi mondiali dalla Penisola. Tuttavia, ce n’è un’altra di ragione, raramente presa in considerazione, che spiega perché in Italia è bloccata e non è più capace di attrarre i grandi capitali. E la ragione è da ricercare nelle assurde battaglia di movimenti ambientalisti e comitati vari. Che nel 2015 hanno bloccato la bellezza di 342 opere. Il fenomeno che tiene in ostaggio l’Italia si chiama nimby: è la sindrome che deriva dal nome anglosassone (not in my back yard, letteralmente non nel mio cortile) e soprattutto dalla cultura tutta italiana, che blocca l’economia con una valanga di micro-contestazioni verso piccoli e grandi infrastrutture. Tutto questo in nome della presunta tutela del territorio. Il risultato sono opere, magari anche utili come ferrovie o gallerie, bloccate sul nascere con conseguente fuga degli investitori. Con buona pace della perdita di prodotto interno lordo e dei posti di lavoro. Le cronache hanno portato alla ribalta parecchi casi eclatanti. Quello del giacimento petrolifero di Ombrina Mare in Abruzzo, la Tap (Transatlantic adriatic pipeline), la Tav (alta velocità Torino-Lione) e la rete ferroviaria tra Italia e Svizzera. Niente opera, niente investimenti. Dal 2004 l’Osservatorio Nimby Forum monitora proprio le contestazioni a opere e infrastrutture in costruzione o ancora in progetto in Italia. E il rapporto 2016 certifica, dunque, che 342 «cantieri» sono stati bloccati. La crescita più pronunciata riguarda il comparto dei rifiuti: con un balzo del +11,8% sul 2014, il settore torna ai livelli record del 2009. Zero impianti contestati, invece, nel fotovoltaico. Occhio alle nuove contestazioni: 111 contro le 91 del 2014 con un incremento significativo del 22%. Ben 196 tra i progetti bloccati riguardano impianti energetici: il risultato è che in Italia continua a essere prodotta meno energia rispetto al fabbisogno del Paese, costretto a comprarla all’estero (con un evidente svantaggio economico) per compensare il deficit. Colpa dei governi, sempre più deboli e meno capaci di osteggiare movimenti e comitati. Pesano gli aspetti elettorali Nello studio delle battaglie, cruciale è l’analisi dei media. «Dal monitoraggio della stampa nel 2015, emerge il ruolo di assoluta centralità della politica nell’alimentare e sostenere le contestazioni: movimenti partitici locali ed enti pubblici sono il motore del No nel 45,6% del casi censiti» spiega il rapporto. Secondo il quale «per quanto più rumorosi, i comitati (35,6%) e le associazioni ambientaliste (13,8%) si posizionano in coda». Tant’è che «il movimento ambientalista arretra rispetto al 2014, quando era all’origine delle proteste nel 15,6% dei casi». C’è poi da analizzare l’aspetto territoriale. Secondo la ricerca è «sostanzialmente invariata la mappa delle contestazioni. Ai primi posti della classifica, le regioni del Nord, con in testa la Lombardia (53 impianti contestati), la Toscana (37), l’Emilia Romagna (31) e il Veneto, che, con 27 impianti contestati, vede diminuire i focolai di protesta del 42,5% sul 2014. Di segno opposto la situazione della Basilicata, che passa dai 6 casi nimby registrati nel 2014 ai 23 del 2015: un incremento che porta la regione dal sedicesimo posto del 2014 al sesto di questa edizione». L’addio a un progetto o la chiusura di un cantiere già avviato hanno enormi ripercussioni sul futuro, sia – come accennato – in termini di pil e di occupazione sia per quanto riguarda l’ammodernamento del Paese. Ma non solo. Gli investitori, ovviamente, non accettano in silenzio. E passano al contrattacco, facendo leva alle penali previste dai contratti stipulati con lo Stato o enti pubblici. A volte le vertenze poggiano sulle violazioni di trattati internazionali. Fatto sta che gli indennizzi, spesso milionari, sono a carico delle casse pubbliche (cioè dei contribuenti). Dopo il danno, la beffa. 00:00/00:00