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 2017  marzo 20 Lunedì calendario

Il Personaggio: Mohammad Bin Salman Al Saud

Al lunch alla Casa Bianca con Donald Trump della settimana scorsa (imprevisto, perché la neve sul Nordamerica aveva bloccato in Europa la cancelliera Merkel, che avrebbe dovuto essere a Washington al posto suo) il principe saudita Mohammad bin Salman si è presentato in stretta tenuta da signore arabo: veste marrone con bordi dorati sopra la tunica grigia e sul capo la tradizionale ghutra bianca e rossa fermata dall’agal nero. Molto più informale era stato invece l’incontro nella Silicon Valley, un anno fa, con il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. Allora MbS (come viene chiamato) era stato ritratto in giacca, camicia bianca senza cravatta e persino blue-jeans. Come ci si aspetterebbe tutto sommato tra un trentaduenne (Zuckerberg) e un trentunenne (il principe), anche se molto speciali. Due incontri – e due abiti – che in fondo sintetizzano la politica del figlio del re Salman, secondo nella linea di successione al trono saudita: tradizione, ma anche volontà di rinnovamento, inusuale per un regime tra i più tradizionalisti e illiberali del pianeta.
Certo, un po’ meno ordinario e più legato allo stereotipo del ricco rampollo è quanto hanno raccontato le cronache della scorsa estate, quando il giovane principe ha messo gli occhi sul Serene, mega-yacht da 139 metri costruito dalla Fincantieri, di proprietà (racconta il New York Times) del magnate russo Yuri Shefler, il re della vodka Stolichnaya (e utilizzato, in semplice affitto estivo, anche da Bill Gates e famiglia). Detto, fatto: pare che nell’arco di ventiquattro ore Shefler abbia raccolto i suoi bagagli e lasciato il Serene al nuovo acquirente, con in tasca un assegno da 500 milioni di euro. 
La successione 
Stereotipi o meno, resta che dall’ascesa al trono del padre avvenuta nel gennaio 2015, le spalle di Mohammad bin Salman sono state caricate di un fardello straordinario. I dossier che a lui fanno capo sono tanti e complicati. Il vice principe ereditario, intanto, è il titolare del dicastero della Difesa. È a lui che fa capo la responsabilità della guerra scatenata dalla coalizione saudita nello Yemen contro i ribelli Houthi sciiti. Lì servono l’appoggio e soprattutto le armi fornite dagli Usa, di cui il regno saudita è il maggior acquirente. Ecco quindi uno dei temi del colloquio con il presidente Usa. 
Ma al principe fa capo anche la supervisione dell’intera politica energetica dell’Arabia Saudita. È in questa veste che ha ribaltato la strategia adottata dal 2014 in poi (aprire i rubinetti della produzione di petrolio per mettere fuori mercato lo «shale oil» americano e il rivale Iran) arrivando lo scorso dicembre a sottoscrivere uno storico accordo tra paesi Opec e non Opec per far risalire i prezzi, falciati dall’eccesso di offerta. Intesa difficoltosa visti i passati rapporti: con Mosca, ritenuta fino a quel momento poco affidabile, e soprattutto con l’odiata Teheran. 
Missione Asia 
A MbS, sul fronte interno, si deve anche l’ambizioso piano «Vision 2030», con il quale il regno punta addirittura ad uscire dalla dipendenza dal petrolio, a cui si deve l’85% dei ricavi da esportazione. 
In questo nuovo corso si inserisce anche il tour di un mese che lo stesso re Salman ha deciso di effettuare in Asia, alla quale va il 70% del petrolio saudita: mentre il principe vedeva Trump in Cina il sovrano ha patrocinato con Xi Jinping accordi dallo spazio all’e-commerce del valore di 65 miliardi di dollari. 
Ma è ovvio che l’operazione delle operazioni, quella su cui fa perno il progetto targato MbS di costituire il maggiore fondo sovrano del mondo, è la privatizzazione e relativa quotazione dell’Aramco, il gioiello della corona. 
Che cosa sia la Saudi Arabian oil company, ex Arabian american oil company, vale la pena ricordarlo. L’Aramco è l’Arabia Saudita: vale il 16% di tutte le riserve di petrolio del mondo, più o meno 266 miliardi di barili di ottimo greggio (il Venezuela è in testa alla classifica con 300 miliardi di barili ma il suo petrolio è meno pregiato e assai più costoso). Vale una produzione di 11 milioni di barili al giorno, al livello di tutti gli Stati Uniti e della Russia. Il leggendario maxi-giacimento di Ghawar, che si estende nel sottosuolo desertico per 280 chilometri di lunghezza (come andare da Milano a Venezia in un corridoio largo 30 chilometri) sarebbe, da solo, l’ottavo Paese mondiale per riserve. 
Le riserve da stimare 
Quanto vale un patrimonio come questo? Se si dà retta alla valutazione dello stesso MbS si arriverebbe a 2.000 miliardi di dollari, il 20% in più del pil italiano e più della capitalizzazione di Apple, Google e Microsoft messe insieme (con buona pace dell’internet economy). Mettere sul mercato il 5% di Aramco entro il 2018, come nei piani sauditi, significherebbe incassare 100 miliardi di dollari, con un’Ipo che farebbe impallidire il record fin qui detenuto da Alibaba (25 miliardi). 
Un boccone così ghiotto da far venire l’acquolina in bocca alle banche d’affari e alle grandi Borse internazionali per la valanga di commissioni in vista per tutti. La lotta si è scatenata ed è in corso, ma finora nella riservatissima lista degli advisor selezionati non compaiono i «soliti» noti, ad eccezione di JpMorgan Chase. Il principe saudita avrebbe affidato incarichi a Evercore Partners, Moelis & Co e all’ex Citigroup Michael Klein. Nomi di pregio ma non molto conosciuti al pubblico. L’altra battaglia che sta infuriando in queste settimane è quella relativa alle Borse che dovrebbero accogliere la quotazione: non solo il Tadawul (la Borsa di Riad) ma anche un mercato asiatico e uno occidentale. Ovvio quindi che la competizione sia aspra tra Wall Street, Tokyo, Hong Kong e Londra, con la Cina come attuale favorita. 
Andrà tutto come nelle previsioni? Le difficoltà sono ancora tante: l’accordo sui tagli alla produzione di petrolio sta mostrando i suoi limiti, e i prezzi del barile sono tornati sotto 50 dollari. Le prime analisi più approfondite su Aramco, come quella di Wood Mackenzie, mettono in dubbio il valore di 2.000 miliardi di dollari limitandosi a 4-500 miliardi, sostenendo che le riserve (i 261 miliardi di barili moltiplicati per 8 dollari) non bastano a valutare una compagnia petrolifera. Si vedrà. Per MbS la sfida è ben lontana dall’esser vinta.