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 2017  febbraio 27 Lunedì calendario

«La via per uscire dalla servitù all’Europa». Intervista a Giulio Tremonti


«Nel 1948 l’Italia era una nazione sconfitta e tuttavia, pur sconfitta, teneva alta la testa nel consesso delle nazioni, chiedendo di entrarci a condizioni di parità. Alla sinistra c’è voluto mezzo secolo ma alla fine ha trovato il modo di introdurre dentro ai nostri confini il cavallo di Troia della sottomissione all’Europa. Con una specifica: il cavallo non l’hanno fatto astutamente entrare da fuori gli europei ma l’ha costruito proprio la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001 introducendo, non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitari non solo i trattati ma anche i regolamenti e le direttive europee». 
In una logica che oggi si direbbe sovranista, ma che in realtà semplicemente ci riporta ai principi di dignità e sovranità della nostra storia, il senatore Giulio Tremonti, componente della Commissione Affari Esteri, fa una proposta di riforma costituzionale che smonta il cavallo di Troia costruito con il nuovo articolo 117 della Costituzione e ritorna al vecchio e glorioso articolo 11 del 1948, quello che sancisce la parità dell’Italia nella sovranità con gli altri Stati. La proposta prevede l’aggiunga di un comma all’articolo 11 («Le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione Europea sono applicabili a condizione di parità e solo in quanto compatibili con i principi di sovranità, democrazia, sussidiarietà e con gli altri principi della Costituzione Italiana») che allinea la nostra Carta, e non sembri un sacrilegio, esattamente a quanto dispone la Costituzione di Berlino, che prevede, prima di recepirle, un controllo vincolante di compatibilità delle norme comunitarie con quelle tedesche». 
Professore, la sua proposta di modifica della Costituzione è un manifesto, una bandiera o qualcosa che può rivelarsi concreto? 
«Facciamo un esempio sulle banche e sul risparmio, un fronte sul quale la sovranità italiana, anche attraverso la norma del bailin, viene cancellata con la normativa europea manovrata nella migliore delle ipotesi da misteriosi algoritmi sui requisiti di capitale, nella peggiore, e più probabile, da interessi a comprarci e spiazzarci. Se in Costituzione ci fosse ora l’articolo 11 così come riformulato nel mio disegno di legge, i risparmiatori avrebbero potuto far valere un principio fondamentale presente nella nostra Carta, ossia l’articolo 47, che stabilisce che “la Repubblica tutela il risparmio”. Il trattamento che l’Europa sta facendo all’Italia sul tema banche non avrebbe potuto farlo alla Germania, che ha scelto di difendere i suoi prinicipi. Alla Corte di Karlsruhe il risparmiatore tedesco avrebbe potuto così far valere i suoi diritti contro la norma che chiama i correntisti a rispondere delle perdite degli istituti, anche se di fatto comunque non ne avrebbe avuto bisogno, visto che comunque il problema i tedeschi l’hanno risolto a priori escludendo, dal bail-in l’enorme e critica area delle loro banche regionali». 
Per dettagliare il senso della propria iniziativa, il professor Tremonti è lieto di ragionare con Libero sulle ragioni profonde che hanno portato l’Italia a cedere unilateralmente quote della propria sovranità e poi anche a discutere sul futuro prossimo dell’Europa e del nostro Paese. Si comincia con una rievocazione dei passaggi chiave della nostra storia internazionale. «La gloriosa Costituzione del 1948» spiega Tremonti «disponeva che “L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”». 
Quindi in un certo qual modo un vincolo esterno alle nostre leggi era previsto fin dall’inizio? 
«Il principio alla base era nella coppia di parole “sovranità” e “parità”. Non un vincolo asimmetrico, come quello che fu introdotto nel 2000-2001, ma un vincolo che aveva ragione d’essere nell’interesse nazionale. Una ragione di legittimazione esterna dell’Italia nello scenario internazionale, e una ragione interna di difesa contro il pericolo comunista. Al principio, il senso di quella norma era quello di accreditarci all’Onu. L’Italia, potenza non vincitrice, iniziava il suo nuovo percorso nel concerto delle nazioni ma nel modo giusto, marcando la propria sovranità e sancendo il criterio della parità e reciprocità con le altre nazioni». 
È per quanto riguarda la difesa interna? 
«Il secondo passaggio fu l’ingresso dell’Italia nella Nato, nel 1949. Ma è evidente che allora la cessione di sovranità fu fatta in funzione difensiva anti-comunista rispetto al Patto di Varsavia. Ma sempre mantenendo ferme parità e sovranità». 
È con l’Unione Europea che la nostra sovranità inizia a incrinarsi dunque? 
«Intendiamoci sulle parole. Per decenni c’è stata la Comunità Europea, non l’Unione. Le comunità europee sorgono in alternativa al Comecon, il sistema commerciale che univa, con l’appoggio fraterno dei carri armati lo spread di allora i Paesi comunisti dell’est Europa. La logica non era solo economica ma anche politica, tant’è che l’Italia entrò nella CECA, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, senza avere né carbone né acciaio». 
Quando e perché sono cambiate le cose? 
«Cominciano a cambiare con il Trattato di Maastricht, nel 1992, siglato nella prospettiva dell’Unione monetaria. È qui che inizia a emergere l’idea del vincolo esterno come importazione, più coatta che convinta, di valori, criteri e principi che la politica italiana da sola non avrebbe potuto rispettare. Evocando il nome dell’Europa invece, sì. Va notato che a quell’altezza di tempo l’Europa era, oggettivamente, popolarmente sentita come un bene in sé, un qualcosa di positivo a prescindere. Poi qualcosa ha cominciato a rompersi». 
Quale fu l’evento spartiacque tra una fase e l’altra? 
«Molto in sintesi, la storia europea come è arrivata a oggi si può dividere in due fasi. Una prima, e lunghissima, che va dal Dopoguerra all’unificazione della Germania: il glorioso periodo del mercato europeo comune, il mitico Mec, l’immagine positiva e progressiva di una unione che si sviluppa nel perimetro dell’economia. La rottura di continuità, ossia la seconda fase, prende inizio con la caduta del muro di Berlino e l’unificazione della Germania. Ineluttabile ma in un certo qual modo fatale. E più che dal lato della Germania, dal lato dell’Europa». 
Insomma la dinamica positiva dell’Europa si inceppò con le due Germanie unite? 
«Niente è stato più come prima. La riunificazione è stata quello che, nel linguaggio della diplomazia, si chiama “colpo di manovella”, quello che avvia la macchina, che partì su due campi, quello della moneta e quello delle regole». 
Iniziamo dall’euro... 
«La moneta unica, già fabbricata in vitro nei laboratori monetari, fu tirata fuori quando si consentì alla Germania di unirsi ma solo a condizione che rinunciasse al marco. L’ex presidente della Commissione Ue, il francese Jacques Delors, formulò una frase enigmatica a riguardo: “A volte la storia è assistita da passaggi misteriosi”. Si noti che l’idea dell’euro non era solo economica ma soprattutto politica. Gli illuminati pensavano: “Federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”, la moneta come mezzo, la politica come fine». 
Al giorno d’oggi sembra che l’esperimento non sia riuscito? 
«In effetti, sempre più tra i popoli si ha l’impressione che crescano le divisioni, tanto nei portafogli quanto nei cuori». 
E poi ci fu la via delle regole? 
«Questo è un percorso ancora più affascinante dal punto di vista politico. Un dato di partenza che ci aiuta a capire: da sempre le “regole” sono lo strumento con cui l’autorità esercita il potere. Ne sono il marker più sicuro. Il marker di oggi dice: Gazzetta Ufficiale Europea 2015, lunghezza 151 chilometri lineari, altezza 30092 pagine di regole». 
Da cosa deriva questa follia? 
«Alla ricerca di quella che lei, non a torto, chiama follia, dobbiamo addentrarci nel più profondo del mysterium del potere politico europeo. Non solo i soliti burocrati e le solite lobby, ma qualcosa di più, di diverso e di superiore, ovverosia il prendersi forma tra le élite più o meno illuminate dell’idea di essere a un passaggio della storia: l’unificazione germanica, l’unificazione monetaria e anche la crezione in questo mondo nuovo dell’homo novus europeus. Si ebbe l’idea che il 1989 fosse l’anno zero, un esperimento che doveva e poteva essere modello e guida per il mondo. Finalmente il sogno settecentesco dell’Europa come “Grande République” avrebbe potuto realizzarsi. 
Un piano assolutistico? 
«Se l’obiettivo è così alto e le menti sono a loro volta così alte, cosa vuole che contino la storia, la tradizione e i costumi. Val bene di superarli anche a costo di entrare nella vita degli altri. Ma lei non deve credere che le élite siano cattive. Sono buone, ed è anche per questo che vogliono il bene degli altri. Sono semmai gli altri che cominciano a vedere in questo processo un delirio di onnipotenza, la maledizione della ubris. Ed è anche per questo che cominciano a votare contro». 
Allora lei la pensa come il futuro ambasciatore di Trump presso la Ue, Ted Malloch, il quale ha paragonato l’Unione Europea all’Unione Sovietica? 
«L’architettura istituzionale ha avuto al principio un disegno hegeliano. Ma poi è venuto il resto, anche dal lato della sinistra postcomunista, che ha spostato i suoi “penati” dai templi di Mosca a Bruxelles, il nido dove ha posato il suo uovo e dove si è ambientata benissimo. Naturalmente poi la stessa sinistra post-comunista è passata anche alla venerazione della finanza ma questo è un altro capitolo». 
La Ue rischia il fallimento per le stesse ragioni per cui è fallita l’Unione Sovietica? 
«È evidente che l’esperimento studiato in vitro e poi vissuto in un delirio di potere è andato a scontrarsi, e non poteva essere altrimenti, con i popoli. Le faccio un esempio molto europeo sul latte e sul formaggio. Lei pensa che l’obbligo di organizzare la lavorazione del latte o la produzione del formaggio nella forma europea di un laboratorio regolato come una sala operatoria ci porti verso il futuro e il benessere o invece che, con vincoli imposti e costi così proibitivi, azzeri quello che dovrebbe regolare? È diventato tutto insufficiente e nel modo più paradossale, insufficiente per eccesso». 
Gli Stati però hanno subìto l’Europa sovietica: la colpa non è prima di tutto loro? 
«In questi anni c’è stata dappertutto in Europa una progressiva, passiva, fatalistica ma non necessariamente convinta accettazione. È evidente che è un processo di standardizzazione che ha pesato di più su ciò che era piccolo e debole e meno su ciò che era più grosso e più forte». 
In Italia questo processo è stato non solo subito ma addirittura costituzionalizzato... 
«Nel bienno 2000-2001 il centro della discussione politica era sul federalismo e sul Titolo V della Costituzione. Il centrosinistra all’improvviso pensò di entrare nel mercato elettorale in senso federalista, per aumentare i propri voti a discapito del centrodestra che cavalcava la devolution. Fu allora che nella sua riforma costituzionale modificò l’articolo 117, di stampo federalista, ma introdusse un passeggero clandestino, il vincolo di sottomissione unilaterale dell’Italia all’Europa, che semmai avrebbe dovuto essere contentuto nell’articolo 11, ossia nella parte sui principi fondamentali, e invece fu astutamente delocalizzato nella seconda parte della Carta. La mia proposta di modifica costituzionale invece tratta l’argomento dei rapporti dell’Italia con l’Unione Europea nell’articolo 11, riprendendo i principi basici di sovranità e parità e riallineando la nostra Costituzione a quella della Germania». 
Mi sta dicendo che la Germania, leggi alla mano, è meno europeista di noi? 
«Dal Dopoguerra fino all’unificazione, per arrivare a Maastricht, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca fu scritta riflettendo la più recente e tragica storia di quel Paese. Con l’unificazione e con Maastricht è stata rimodulata introducendo i principi e i criteri che ora sono contenuti nel paragrafo 23 che sancisce il criterio di compatibilità dell’ordinamento europeo con i principi di democrazia e sovranità contenuti nel corpo della Costituzione tedesca. Berlino non importa in automatico i materiali giuridici europei ma li filtra attraverso il criterio di compatibilità con i propri principi interni. Tra l’altro, prevedendo procedure di controllo analoghe e parallele a quelle previste per le modifiche della Costituzione. L’Italia invece ha fatto l’opposto. Non solo ha preso atto della nuova realtà e della nuova dinamica europea l’Europa stava uscendo dalla iniziale dimensione economica per assumere una nuova dimensione politica ma ha assunto rispetto a tutto questo una posizione passiva, ha rimosso il vecchio criterio della condizione di sovranità e di parità e ha introdotto un criterio, per così dire, di senso unico da fuori». 
Da qui il suo disegno di legge costituzionale per parificare la condizione italiana a quella tedesca? 
«Se la Costituzione della Germania prevede un controllo di compatibilità delle leggi dell’Unione con quelle tedesche, perché per l’Italia ci dovrebbe essere l’importazione automatica dei materiali giuridici europei? Se è compatibile con i trattati europei la Costituzione tedesca, perché non dovrebbe esserlo anche quella italiana se allineata sul modello tedesco? L’Europa non può essere come la fattoria della animali, nella quale tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri». 
Allora ha ragione chi le dà del sovranista? 
«A marzo si celebrano i 60 anni del Trattato di Roma, un grande trattato tra Stati sovrani che usando una parola antica, la parola “sussidiarietà”, devolvevano verso l’alto solo le competenze necessarie nella logica della Comunità Europea che allora si andava a costituire ma riservavano alla propria sovranità nazionale legislativa e politica nazionale tutto il resto, quello che si pensava potesse e dovesse essere fatto al meglio nei singoli Stati sovrani. La parola scelta per definire il processo fu una parola politica, la parola “unione”, ma indicata con la formula “verso una unione”. Un percorso più che il nome di un corpo che allora ancora non c’era». 
Ma l’Europa può avere futuro se ritornano gli Stati nazione? 
«Il Trattato di Roma, un trattato tra Stati sovrani e che restavano sovrani, si basava di fatto sulla formula della “confederazione”. E questo, ora come allora, è il futuro dell’Europa. L’idea di allineare la Costituzione italiana a quella tedesca è la base necessaria per entrare in questa logica». 
Altrimenti? 
«Le ipotesi in alternativa sono tante. Fra queste anche la dissoluzione dell’Unione Europea, il “viene giù tutto”, come si dice. Del resto, la parola unione non è tra le più fortunate nella storia visto com’è andata a finire altrove». 
Cos’è più minaccioso per la sopravvivenza della Ue, la crisi economica o quella politica? 
«Quello che è certo oggi è che si è attivata una cascata di fenomeni tra di loro diversi. La dissoluzione può essere causata da singoli Stati nella dialettica con la Ue, e quindi seguendo una dinamica dalla periferia verso il centro. Ma può anche essere che all’opposto sia il centro che taglia la fune alla quale sono aggrappate alcune scialuppe». 
L’origine del collasso sarà economica o politica? 
«Nel catalogo dei fenomeni possono aversene di politici, elettorali, o economici. Possono esserci scelte attive unilaterali di uno Stato o derive passive, come può essere nel caso dell’incapacità dei governi di guidare i processi economici, oppure, e questo può riguardare più da vicino l’Italia, la semplice incapacità di governare la realtà. L’uscita di un Paese può essere voluta ma anche fatta accadere o semplicemente accettata attivamente da fuori. Se non come tragedia (speriamo) la storia può ripetersi, spostandosi dalla Germania anni Trenta all’Italia di oggi: uno scenario tipo Weimar può diventare la prospettiva del nostro Paese». 
Cosa la preoccupa di più attualmente per il nostro Paese? 
«Se manca, o se mancherà, la capacità di governo del Paese, il tracollo sarà inevitabile. Mi preoccupa, ed è sintomatico, lo scambio che sembra in atto tra la data in cui si faranno le elezioni e la data in cui si farà il bilancio pubblico. C’è chi, dopo aver governato come una cicala per tre lunghissimi anni con tutti gli astri in positivo (dai tassi, al prezzo del petrolio), oggi pianifica elezioni anticipate per non pagare il conto, girando l’onere di bilancio a chi viene dopo. Ma rimandare porterà a un grado maggiore d’ingovernabilità e le tensioni finanziarie saranno ancora più decisive. E quello della tensione finanziaria è l’habitat naturale per la crescita del populismo, che non sarà causato dai “sovranisti” ma sarà responsabilità di chi fa ruotare le regole in modo irresponsabile. E dico questo a futura memoria. Anche a prescindere dall’Europa abbiamo da finanziare e rifinanziare il terzo debito pubblico del mondo senza avere la terza economia del mondo». 
Ma andare a votare subito non ci darebbe almeno un governo forte? 
«No, se la scelta politica è quella di anticipare le elezioni rispetto alla legge di bilancio per non alienarsi il consenso degli elettori. Anche perché le elezioni si terrebbero con una legge elettorale che non fa vincere nessuno e quindi dopo il voto nessuno sarebbe in grado di fare la legge di bilancio. Chi provocherà questo, pur nell’ossequio formale delle leggi, si caricherà verso gli italiani di una gravissima responsabilità storica. Perché è a quel punto che l’Europa potrebbe decidere di mollarci».