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 2017  febbraio 17 Venerdì calendario

1977 tra i manifestanti della Sapienza anche Gianni Riotta: «In mezzo all’odio di quella piazza ho perduto le illusioni della gioventù»

Nella primavera del 1977 avevo 23 anni, un anno dopo me ne sentivo addosso 40. Come un ragazzo, di mestiere capo della Cultura al quotidiano Il Manifesto, sia invecchiato tanto in dodici mesi, si capisce contando i passi che, dall’assalto del movimento 1977 al comizio del segretario Cgil Luciano Lama, a Roma, portano all’assassinio del presidente Aldo Moro, primavera 1978. L’Italia era perfino più confusa di adesso. Una Dc divisa tra cinismo di Andreotti e speranze utopiche di Moro si poteva votare solo, implorava Montanelli, «turandosi il naso»; il Psi di Craxi aveva idee nuove ma non alleati; il Pci di Berlinguer proponeva «l’austerità» a un paese che voleva crescere, deprecando a parole l’Urss ma votando contro la Nato in Parlamento e accusando i giovani di essere squadristi fascisti, «diciannovisti». La tv a colori era considerata, dal Pri di La Malfa, lusso decadente da proibire in una nazione grigio ferro.
Io mi sentivo come Franz Tunda, protagonista di un libro Adelphi tradotto nel 1976, Fuga senza fine di Joseph Roth: «Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo» e non ero il solo, la politica stuccava, la famiglia tradizionale a pezzi, le speranze del Concilio spente dal declino di papa Paolo VI. I ragazzi del movimento erano belli, i fotografi Lucas e D’Amico li riprendevano con ricci, bandiere, borse di Tolfa. I maschi erano vivaci, alla Zanardi nei fumetti di Pazienza, le ragazze dolci e dure, femministe come in Ricomincio da tre di Troisi, due eroi del tempo, presto volati via, da veri romantici.
La politica c’entrava poco, la futura senatrice Rina Gagliardi mi spiegava seria «Il 77? È uno stato d’animo». Non ero sicuro, a me sembrava pesasse la cappa della Guerra Fredda, da mio padre, cattolico, avevo imparato a detestare Stalin, Il Manifesto organizzò a Venezia d’estate il primo convegno «di sinistra», con l’intervento di autorevoli dissidenti sovietici, e ne fui felice. A rompere ogni illusione libertaria furono i «duri» del movimento, che al corteo dell’undici marzo, mettono a ferro e fuoco Roma, tra lacrimogeni della polizia e rivoltellate terroriste. Uno di loro, smilzo, col passamontagna nero, sfondava all’Altare della Patria una 500 con un piede di porco, di quelli a punta biforcuta cari a Gambadilegno. «È una 500!» gli gridai ingenuo, «macchina da pendolari». Soppesò l’arma, negli occhi sotto il cappuccio un lampo, volentieri mi avrebbe usato da bersaglio. Al liceo avevo incrociato Concutelli, neofascista poi killer del giudice Occorsio. Paura? Tanta, ma come il mio adorato principe Andrej Bolkonskij in Guerra e Pace ripetevo per farmi coraggio, «Paura? Io non posso avere paura». Mi tirò fuori Stefano Bonilli, cronista poi fondatore del Gambero Rosso, tirandomi via per il colletto senza complimenti pose fine al mio demenziale dibattito.
Quel 17 febbraio era in corso un’agitazione dei giornalisti – tutti erano sempre in sciopero, anche i diplomatici – e quindi i reporter erano tanti, in una chiara mattina, quando Lama, leader Cgil malconsigliato dal Pci, salì su un camion nel piazzale dell’Università romana per «Parlare agli studenti». L’ala «creativa», zoccoli Dottor Scholl’s e gonne a fiori, lo attendeva con pupazzi e slogan buffi, «Lama in Tibet», Autonomia operaia con le spranghe, un pugno di terroristi con la «baiaffa», revolver nel gergo della mala. Lotta Continua accusava Lama di rasoiare gli operai, «Lama-Bilama» recitavano vignette ironiche. La provocazione partì dal servizio d’ordine del Pci, una sventagliata di schiuma da un estintore. Erano ex edili, abituati a scazzottarsi con fascistelli pariolini, non si aspettavano la carica militare che li spazzò via inesorabile. A stento salvarono Lama. L’ateneo rimase agli occupanti, circondati da polizia e blindati. Gli studenti si illusero di avere inflitto al «regime» una sconfitta campale, gli Autonomi pensarono di avere in pugno l’Università, i terroristi reclutarono tra i più accesi militanti.
La foto di Tano D’Amico vede me reporter, unico a volto scoperto, ultimo a sinistra accanto alla povera Karmann Ghia spider. Pensavo, «È finita una sinistra. Altre ne verranno, questa è finita». Troppo sangue, troppo odio, presto troppi morti. Uscimmo nel pomeriggio, solo sventolando la tessera rossa dell’ordine.
Un anno, dopo i murales degli «Indiani Metropolitani» erano ingrigiti da smog e paura, io mi sentivo 40 anni. Carlo Rivolta, cronista di Repubblica morto a soli 32 anni, elegante come un divo con il trench beige, mi ammonì «Ti odiano, mi odiano, ci odiano: hai capito?». A 24 anni, forse, non avrei capito l’odio. A 40 acquisiti sì. Mi fu subito chiaro, per esempio, che le lettere di Moro dal carcere Br erano sue, e non mi accodai al coro ipocrita «Non è lui l’autore!». Una sera, alla trattoria Cesaretto, un amico mi chiese incredulo «Dunque se sapessi dove le Br tengono Moro chiameresti la polizia?». Sì risposi sereno, adulto per l’orrore visto in prima linea. L’amicizia finì davanti a quel quarto di rosso, per sempre. Non credete dunque ai diari nostalgici di questi giorni. Il 1977-1978 non invecchiò solo me, ma tutta Italia, e quel veleno, sottile, ancora vola in aria.