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 2017  febbraio 17 Venerdì calendario

In morte di Jannis Kounellis

Per uno degli strani giochi del destino, chiuderà tra pochi giorni, il 21 febbraio, la mostra che il Musma (il Museo della Scultura di Matera) gli aveva dedicato, ennesimo e dovuto omaggio dovuto a uno dei grandi padri-maestri (ma non certo padrone) dell’Arte Povera, un’installazione con 14 disegni (curata da Tommaso Strinati) che di fatto raccontava per frammenti il percorso, al tempo stesso complesso e affascinante, di Jannis Kounellis, scomparso ieri a Roma a ottant’anni. Il percorso di quel giovane greco (era nato al Pireo il 23 marzo del 1936) che aveva letteralmente cambiato il modo di essere artista. Un personaggio unico e non un mito, definizione che profondamente disprezzava. E d’altra parte che tenesse alla fama di personaggio lontano da ogni possibile tentazione di divismo lo dimostrava il suo modo di presentarsi anche fisicamente. Come in occasione della inaugurazione di Codice Italia, la mostra del Padiglione Italia alla Biennale d’arte di Venezia del 2015 : i grandi baffi e i capelli lunghi e grigi, l’abito nero spiegazzato se non addirittura impolverato dai suoi amatissimi materiali, l’aspetto trasandato, la sigaretta sempre accesa. Un’impressione che finiva ogni volta contraddetta dai toni della voce (profonda, rauca), dalla gentilezza dei modi, dallo scontroso desiderio di «farti capire».
Se di lui si ricordano sempre e comunque le sue installazioni di legno e cera, di piombo e terra, di fiori e di sacchi di iuta riempiti di carbone (oppure di chicchi di caffè o di granaglie), non va dimenticato che il suo è stato un percorso complesso, anche fisicamente. Arrivato in Italia dal Pireo (e nelle sue opere il senso della lontananza e dell’addio sarà uno degli elementi più ricorrenti), aveva scelto subito Roma come «punto di riferimento» e in qualche modo come luogo della vita: qui studia all’Accademia di Belle Arti con maestri del calibro di Mino Maccari, Franco Gentilini, Ferruccio Ferrazzi e, soprattutto, Toti Scialoja, che nel 1960 gli permetterà di realizzare la prima personale alla Galleria La Tartaruga. Dove debutterà con la serie pittorica degli Alfabeti costituita da lettere, numeri, frecce e altri simboli dipinti a tempera nera su tela bianca. E dove sarà uno dei tasselli dell’incredibile stagione artistica vissuta allora dalla Capitale, un mosaico composto dallo stesso Kounellis, ma anche da Mario Schifano, Renato Mambor, Tano Festa e Mario Ceroli.
Sarà in qualche modo la scelta di quegli stessi materiali naturali «poveri» (che diventeranno un’altra delle sue cifre distintive) a farlo avvicinare alle ricerche dell’Arte Povera, staccandosi al medesimo tempo dalle possibili tentazioni del Pop e del figurazione. Certificando con il suo percorso d’autore la definizione di quell’Arte che aveva coniato nel 196o il critico Germano Celant e che avrebbe da allora contraddistinto «un gruppo di giovani artisti di diversa formazione e poetica, accomunati dalla messa in discussione della realtà e dal tentativo di riflettere e far riflettere su di essa attraverso opere realizzate con i più svariati materiali e ambientate in luoghi non abitualmente frequentati dall’arte, come fabbriche, cantieri industriali, boschi».
Da sempre innamorato dell’Italia e della sua arte, in particolare delle pitture di Masaccio, Tiziano e Caravaggio, Kounellis ha in qualche modo sintetizzato, nelle sue installazioni, tradizione e contemporaneo. Ma nella forza primitiva dei suoi lavori i materiali non sono mai rimasti semplice materia, piuttosto frammenti essenziali di una storia capace di coinvolgere sentimentalmente e attivamente lo spettatore (ma forse prima di tutto lo stesso artista).
Ma Jannis Kounellis non è stato solo Arte Povera: i suoi Fiori di fuoco (immagini di fiori recanti al centro della corolla una fiamma che scaturisce da un becco di gas), il suo pappagallo vivo sullo sfondo di una superficie grigia (1967), i carrelli di carbone, le lane e altri elementi naturali o artificiali. Mentre negli anni Settanta, con i suoi «ambienti» e le sue «performance», sarebbe apparso più decisamente orientato verso un’arte dell’evento e del comportamento. Più tardi, a partire dagli anni Ottanta, le sue opere avrebbero recuperato invece frammenti e oggetti antichi, evocando la nostalgia di un mondo arcaico e simbolico-mitologico. Per un vocabolario complesso che, infine, contaminerà ad esempio l’analisi del rapporto uomo-natura con l’utilizzo di tecniche e ancora una volta materiali inusuali (frammenti di calchi, fuliggine, fiamme ossidriche, traversine di legno, acciaio, sassi che chiudevano porte e finestre).
Nel 1995, in piazza Plebiscito a Napoli, Kounellis aveva addirittura installato, montandole su di un tabellone metallico, delle bombole a gas con tubi a cannella. Mente nel 2002, presso la Galleria nazionale di arte moderna di Roma, aveva allestito Atto u nico, un percorso di lamiere di ferro nei corridoi e nelle sale della galleria, lungo il quale sono posizionati ancora una volta sacchi di iuta, pietre, carbone e altri oggetti. Dei suoi lavori successivi, da ricordare (tra gli altri) la Porta dell’orto monastico della basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma (2007). E delle innumerevoli mostre che glie erano state dedicate, quelle allo Stedelijk Museum di Amsterdam (1990-91), alla Galleria Tretjakov di Mosca (1991), alla Biennale di Venezia (1993) e alla Kunsthalle di Amburgo (1995). Del 2006 è infine un’ampia retrospettiva (con le opere realizzate tra il 1969 e il 1994) al Museo d’arte contemporanea Donna Regina di Napoli, il Madre, cui hanno fatto seguito le personali organizzate dalla Galleria Fumagalli e dal Museo Adriano Bernareggi di Bergamo (2009) e la mostra Disegni e progetti ospitata nella Galleria Vannucci di Pistoia (2010).
Jannis Kounellis ha fatto spesso scandalo, ma essenzialmente per la novità e la forza dei suoi lavori. Perchè fin da quando allestisce la sua prima personale italiana, alla galleria La Tartaruga, appare già chiaro dove sarebbe arrivato: al coinvolgimento del pubblico, fondamentale per completare l’opera d’arte. Anche a costo di colpire come un sasso può colpire e sfondare un vetro. Perché la sua ricerca, iniziata dal quadro nudo e puro, sfonda in seguito i limiti della pittura e sfocia presto nel rifiuto dei mezzi tradizionali.
La sua storia d’artista può essere raccontata da quel controverso lavoro del 1969 Senza Titolo : quando espone 12 cavalli vivi da Fabio Sargentini, alla Galleria L’Attico, a Roma. Dodici cavalli vivi che per Kounellis dovevano rappresentare il conflitto ideale tra cultura e natura, in cui l’artista viene ridotto al semplice ruolo (marginale) di artefice mentre l’opera si realizza nella «partecipazione e nella relazione tra pubblico e opera». Quei cavalli sarebbero stati riproposti lo scorso anno a New York dalla Galleria Gavin Brown. Segno che Jannis Kounellis aveva scoperto (da sempre) il vero segreto della grande arte. Continuare a stupire. Anche dopo quasi mezzo secolo.