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 2017  febbraio 16 Giovedì calendario

Mani Pulite 25 anni dopo. L’Italia che ci ha lasciato

Al venticinquesimo anniversario non si saprebbe più che aggiungere, se non sopraggiungesse la cronaca. Il 17 febbraio del 1992 venne arrestato Mario Chiesa e si iniziò Mani Pulite, e il 17 febbraio del 2017 sembra tanto bello e giusto, e soltanto per qualcuno sommamente curioso, che prima di prendere decisioni su Alfonso Marra, stretto collaboratore del sindaco di Roma, i vertici del Movimento cinque stelle abbiano atteso indicazioni dal procuratore Giuseppe Pignatone.
Le annuali ricorrenze del disvelamento di Tangentopoli seguono da sempre i ritmi delle geremiadi di magistrati delusi dalla corruzione non ancora debellata. Dieci giorni fa, nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano, da dove tutto partì, non più di venti persone hanno assistito alla celebrazione tenuta da Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, ossia il vero eroe della stagione, primo titolare della più devastante inchiesta della storia repubblicana, e il sostituto che fornì intransigenza e abilità nelle questioni di codice. Venti persone, un finale di carriera che lascia senza fiato per un gruppo di inquirenti che nel 1993 godeva del favore del novantacinque per cento degli italiani. Della lotta alla corruzione non interessa a nessuno, è stata la conseguente analisi, ma probabilmente non è così: allora c’era il popolo dei fax, che inviava i suoi incoraggiamenti a penna e le sue aspettative di patibolo, e quel popolo era padre del popolo di Facebook e di Twitter, che continua a diffondere, ma sotto forma digitale, messaggi di rabbia e recriminazione, e di incitamento alla garrota per i ladri.
È mutata – è tracollata – la fiducia nella magistratura, che non lo sa, o sottovaluta, ma prima o poi rischia di finire sulla sedia dell’imputato nella piazza urlante dei processi virtuali. Dopo venticinque anni, se davvero nulla è cambiato in quanto a criminalità in giacca e cravatta, sarà colpa della politica fuorilegge, e di una legislazione da trincea difensiva, come si sostiene, ma forse anche di chi combatte una guerra lunga cinque volte la Seconda guerra mondiale, ma non porta a casa la vittoria, e anzi dichiara ripetutamente che tutto è perduto. E nonostante i moschettieri di quel rutilante gruppo (tranne il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, elegantemente autoesiliato fra libri e spartiti) siano traslocati a proseguire la battaglia altrove: Di Pietro ha fondato e affondato un partito, Davigo comanda l’Associazione nazionale di categoria, Gerardo D’Ambrosio (morto da qualche anno) s’è fatto eleggere in Senato, Gherardo Colombo è stato consigliere Rai su indicazione del Pd; però le statistiche continuano a essere scoraggianti ma soprattutto ripetitive: secondo la classifica 2017 di Transparency, l’Italia è al sessantesimo posto nel mondo (dietro l’Oman!) e al penultimo in Europa, dove più corrotti di noi sarebbero soltanto i bulgari. Spesso si dimentica di dire che la classifica è redatta sulla «percezione della corruzione», niente di scientifico, ed è difficile che si percepisca un po’ meno corrotto un Paese che insiste a dirsi corrotto, sovente sulle basi dell’enfasi che si dà ad arresti e avvisi di garanzia, e all’irrilevanza a proscioglimenti e archiviazioni.
Poi, che qui ci siano seri problemi di legalità è innegabile, come c’erano venticinque anni fa. In fondo sono cambiati solamente i rapporti di forza fra poteri. La magistratura in crisi di consenso insiste a dettare la linea e i tempi di una politica sfiancata, e che proprio alla magistratura si appoggia nell’illusione di recuperare credibilità. Un’apertura di indagine continua a essere un solido argomento per chiedere le dimissioni e dichiarare associazione per delinquere un partito o l’altro, e invitarlo a farsi da parte e lasciar spazio all’Onesto Emergente.
Gli ultimi onesti, i cinque stelle, come si diceva in apertura, si proclamano inadatti alla selezione della classe dirigente, incarico demandato a un’artificiosa Autorità nazionale anticorruzione o al procuratore capo di Roma. Ecco che cosa è cambiato: venticinque anni fa non c’era spostamento di magistrato su cui non mettesse becco la politica, oggi non c’è spostamento di politico su cui non metta becco la magistratura. In mezzo rimane un vasto mare di corruzione – reale o percepita, boh – che incoraggia chiunque non sia establishment a sentirsi vittima delle alte ruberie. Un capolavoro in un Paese anarchico e refrattario alle regole in cui, per dati certi, non per percezione, si tollerano quote di assenteismo ed evasione fiscale (la corruzione dei dipendenti e degli autonomi) che meglio di mille riflessioni spiegano perché le élite siamo modeste e vivacchino nella modestia.
Non può che infilarsi in questo imbuto la discussione politica, oggi come allora: una specie di tafferuglio globale e perpetuo in cui ci si guadagnano i titoli a governare non per capacità ma per onestà, fino a indizio contrario. Il risultato finale, i cui esiti si assaporano a Roma, è che si pretendono politici onesti sperando siano capaci anziché politici capaci sperando siano onesti.