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 2017  febbraio 16 Giovedì calendario

Nella colonia di Beit El le case (e i soldi) portano agli amici Usa

GERUSALEMME La pietra che avrebbe fatto da cuscino di Giacobbe è ancora lì e adesso aiuta a sognare i seimilacinquecento abitanti di questo villaggio trincerato. Al patriarca biblico Dio promise la terra su cui stava dormendo, ai coloni di Beit El bastano le parole di Donald Trump. Perché sanno di avere un amico e sostenitore che del presidente americano è stato il consigliere sul Medio Oriente durante la campagna elettorale e oggi viene ascoltato per la prima volta dal Congresso, i deputati e i senatori devono vagliare e approvare la sua nomina ad ambasciatore in Israele: David Friedman.
Beit El, Casa di Dio in ebraico, è stata costruita dentro la Cisgiordania a quattordici chilometri dalla Linea Verde, l’eventuale frontiera riconosciuta dalla comunità internazionale che considera illegittimi gli insediamenti. Guarda dall’alto la periferia di Ramallah, quella che in mancanza di uno Stato è considerata la capitale dei palestinesi. Più che dalla fabbrica di tefillin, i filatteri di cuoio che gli ebrei si legano al braccio per la preghiera, è sostenuta dalle donazioni dei benefattori stranieri. Come Friedman che è presidente degli «amici americani di Beit El» e ogni anno raccoglie 2 milioni di dollari. La famiglia di Jared Kushner, il genero di Trump incaricato di affrontare la questione israelo-palestinese, ha depositato 38 mila dollari per la causa nel 2013 e lo stesso Trump diecimila tredici anni fa.
Dalla terrazza panoramica, attrazione per i visitatori della colonia fondata nel 1977, nelle giornate limpide è possibile vedere lontano, fino ai grattacieli di Tel Aviv. Un mosaico incastonato per terra fa da mappa ideologica: disegna la Grande Israele, un pezzo unico dal fiume Giordano al Mediterraneo, come la pretende il partito dei coloni e come l’ha sempre vagheggiata tutta la destra israeliana. Sulla collina pietrosa vive anche Hagai Ben-Artzi, il fratello di Sara Netanyahu, che critica le scelte politiche del cognato per lui troppo fiacche e compromissorie. I leader dei sionisti religiosi sentono che è arrivata l’occasione per tenere tutti i territori arabi catturati nel 1967 con la vittoria nella guerra dei Sei Giorni.
Da avvocato che si occupa di fallimenti, anche Friedman considera la soluzione dei due Stati in bancarotta: è convinto che la Cisgiordania vada annessa, i palestinesi non avranno mai una nazione. Il candidato ambasciatore scrive per Arutz Sheva e per superare l’esame del Congresso sarebbe pronto a scusarsi per quello che ha proclamato a giugno dell’anno scorso in un editoriale per il network degli oltranzisti pubblicato qui a Beit El. Ha definito gli attivisti di J Street, gruppo lobbista che da sinistra sostiene Israele negli Stati Uniti, «peggio dei kapò»: «Almeno i kapò dovevano affrontare una crudeltà eccezionale e nessuno di noi può sapere come avrebbe reagito in quelle circostanze. Ma questi ebrei liberal? Sono solo degli orgogliosi propugnatori della distruzione di Israele, pianificata dalla comodità dei loro divani americani. Difficile immaginare qualcuno di peggiore».