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 2017  gennaio 13 Venerdì calendario

Stretti nella morsa Obama-Trump

NEW YORK Anche Fiat-Chrysler (Fca) finisce in mezzo alla “guerra a distanza” fra Barack Obama e Donald Trump, negli ultimi giorni della transizione. Solo pochi giorni fa il presidente- eletto aveva applaudito l’annuncio di Sergio Marchionne sui nuovi investimenti americani del suo gruppo.
E ieri ecco che il presidente- uscente colpisce Fca con uno dei provvedimenti finali della sua Amministrazione. In questo caso il braccio armato di Obama è la sua agenzia per l’ambiente, Environmental Protection Agency (Epa). Al cui vertice (futuro) Trump ha designato un nemico dichiarato degli ambientalisti: Scott Pruitt, già ministro della Giustizia dell’Oklahoma, un politico-lobbista legato ai petrolieri, che ha sempre tentato di smantellare o contrastare i poteri dell’Epa. L’avviso di violazione consegnato a Fca dall’Epa è forse l’ultimo atto della vecchia dirigenza di quest’agenzia federale. I buoni rapporti personali fra Marchionne e Obama non hanno impedito il lancio di questa offensiva finale, su un terreno analogo al dieselgate della Volkswagen. In quale agenda politica s’inserisce la grave accusa al gruppo italo-americano Fiat-Chrysler? E in che misura l’avvicendamento della nuova Amministrazione Trump può cambiare le cose, fra soli sette giorni?
Per Obama, i due dieselgate sono scandali che toccano da vicino una delle sue eredità più importanti: la lotta al cambiamento climatico e tutte le normative ambientali che ad essa sono collegate. Questo presidente passerà alla storia come un ambientalista convinto. Ha conquistato Xi Jinping portandolo sulle proprie posizioni e così l’asse Usa-Cina ha consentito gli accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni carboniche. I controlli sull’inquinamento delle automobili, dei camion, delle centrali elettriche, sono parte di questa eredità. Così come Obama ha usato gli ultimi giorni di presidenza per imporre nuovi divieti alle trivellazioni costiere, o per estendere a nuovi parchi naturali la protezione federale, allo stesso modo è coerente la sua accelerazione delle offensive su Volkswagen, poi Fca, per gli scandali dieselgate. Nel caso di Volkswagen per la verità si tratta di una “accelerazione” relativa: contro la casa tedesca dopo l’Epa si era mosso il Dipartimento di Giustizia, e le indagini dell’Fbi sono durate 16 mesi. Invece Fca per ora è al primo stadio, con l’avviso di violazione emesso dall’Epa. È reversibile questo atto, non appena Trump s’insedia alla Casa Bianca? Il nuovo presidente ha sposato (talvolta) l’approccio “negazionista” che disconosce il cambiamento climatico. Ha promesso tante deregulation alle imprese, ivi compreso sulle regole ambientali. Ha designato alla guida dell’Epa… un nemico giurato dell’Epa stessa. Quindi Fca potrebbe giovarsi del cambio di Amministrazione, a differenza di Volkswagen che ormai ha riconosciuto la propria colpevolezza anche in sede penale ed ha accettato di pagare. C’è però un ostacolo che può impedire di fare marcia indietro sul dieselgate di Fca: la California. Come nel caso Volkswagen, anche per Fiat-Chrysler l’Epa federale si è mossa di concerto con la sua sorella californiana (Carb): un’agenzia ambientale molto potente, in uno Stato governato dal democratico Jerry Brown. Quand’anche l’Epa nell’era Trump voglia rimangiarsi le proprie accuse alla Fca, non è detto che la California sia d’accordo. E uno scontro con l’authority californiana è denso di rischi, vista l’importanza di quel mercato automobilistico, il più grosso degli Stati Uniti. In quanto a Trump, lui dovrà soppesare due spinte divergenti. Da una parte c’è la sua pulsione a disfare tutto ciò che Obama ha fatto per l’ambiente. D’altra parte c’è il suo nazionalismo economico. Non va dimenticato che alcuni big dell’auto Usa, Gm e Ford, furono scettici sul cosiddetto “eurodiesel”, contestandone i presunti vantaggi per l’ambiente.
Sulle motivazioni di Obama – infine – ce n’è una in particolare che al momento riguarda il primo dieselgate, quello della Volkswagen. Oltre alla battaglia per l’ambiente questo scandalo chiama in causa anche l’approccio alla criminalità economica, ai reati dei colletti bianchi. Già a partire dal grande crac di Wall Street nel 2008, Obama fu accusato di non avere fatto abbastanza per colpire i top manager. Le maxi-multe che furono inflitte – in quel caso alle banche – non hanno effetto deterrente né dissuasivo né realmente punitivo: in ultima istanza le pagano gli azionisti, poi i clienti-consumatori, mai i top manager. Nel caso Volkswagen il Dipartimento di Giustizia ha voluto cambiare approccio: non più solo maxi- multe ma un processo penale a carico dei singoli top manager della casa tedesca, uno dei quali è stato arrestato pochi giorni fa a Miami. Aggiungere alle maxi-multe lo spauracchio del carcere per i top manager è una svolta recente. Anche questa non necessariamente condivisa da chi verrà. In questo caso il successore designato da Trump per dirigere il Dipartimento di Giustizia, il senatore dell’Alabama Jeff Sessions.