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 2017  gennaio 05 Giovedì calendario

Lo Stato «banchiere» studia la ristrutturazione degli istituti malati e vede 15 mila esuberi

Sarà lo Stato banchiere a dover tagliare la testa a migliaia di cassieri 40-50enni, troppo vecchi e costosi per i nuovi standard del credito ma giovani per i prepensionamenti? La domanda preoccupa i cassieri, i loro capi e i loro sindacalisti. La statalizzazione incipiente di Montepaschi, più quella eventuale di Vicenza, Veneto Banca, Carige e alcune casse emiliane come Rimini, Cesena, San Miniato, pone interrogativi sulla tenuta degli strumenti previsti dal contratto di lavoro bancario per gestire la ristrutturazione: ciò che finora ha dato buone prove di tenuta sui casi fisiologici potrebbe non bastare davanti a varie situazioni ormai patologiche.
Quando, in agosto, l’Abi e i sindacati iniziarono a tessere – con i sottosegretari del vecchio governo Tommaso Nannicini e Pier Paolo Baretta – la trama per riavere i 200 milioni annui del loro contributo alla cassa integrazione, in forma di sostegno più discreto per i molti esuberi bancari, nessuno ipotizzava che a dicembre lo Stato sarebbe diventato azionista oltre che interlocutore. Quei 200 milioni pagati e non usati dagli istituti – perché la cig ha bisogno di uno stato di crisi formale, poco opportuno per chi vende anche fiducia e ha depositi affidati “a vista” – furono ristornati dalla legge di Stabilità 2016, che stanziava 648 milioni su 5 anni per i prepensionamenti bancari. In pratica, fino al 2021 chi esce in anticipo è pagato per il 25% dallo Stato, che sgrava della cifra il Fondo esuberi, ammortizzatore privato di categoria che dal 2000 ha gestito in modo volontario e mite 65mila esuberi. Nessuno tra loro immaginava verso metà dicembre l’aria sarebbe stata così cupa da far giungere al Tesoro un’esercitazione in cui lo Stato socio unico tentava di unire tra loro Mps, Vicenza, Veneto Banca e le quattro good bank, creando il terzo polo italiano con taglio di quasi 15mila dipendenti. Quel dossier segreto è forse oggi superato dagli eventi: la Bce ha chiesto più patrimonio a Siena, le due venete vanno verso le nozze e tre delle quattro banche in risoluzione da un anno sta per comprarle Ubi al prezzo d’occasione di un euro.
Non per questo sono risolti i problemi: il caso Mps lo spiega. L’istituto a febbraio dovrà farsi approvare un piano di riassetto dall’Antitrust Ue che rispetti i vincoli della normativa sugli aiuti di Stato. Sarà un piano tutto in difesa, perché a chi riceve capitale pubblico sono vietate offerte commerciali aggressive o ricavi extra con acquisizioni e finanza: deve concentrarsi sui tagli di costi. Il piano di fine ottobre di Marco Morelli prevedeva 2.900 esuberi, e si dice fosse più mite rispetto a quello che aveva in canna il predecessore Fabrizio Viola, in cui le uscite erano 5mila. Nell’ambiente bancario si stima che ora gli esuberi saliranno. «Non è detto che il nuovo piano industriale Mps sia più duro – ha detto però il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta —. L’intervento dello Stato deve ridurre le tensioni sociali e non aumentarle». È un nobile principio da declinare con la realtà dei fatti, e con i diktat della Bce e dell’Ue. Come per Mps, molti banchieri stimano che sarà difficile, per gli istituti che finiranno nella tagliola della direttiva Ue sui salvataggi, poter gestire ordinatamente gli esuberi: perché sono troppi e costano troppo (un prepensionamento costa sui 55mila euro l’anno, contributi esclusi). E gli sgravi della legge di spesa sono una voce “a riempimento”: non a caso da giorni fioccano accordi dentro le banche, da Ubi a Bp-Bpm, da Mps a Bnl, con Unicredit e le due venete in fieri. Fatti due conti, il tetto dei 25mila esuberi è già qui. Chi si sbriga fa pagare ai contribuenti un 25%: a tutti gli altri toccherà il prezzo pieno. Oppure alternative radicali, come i licenziamenti collettivi. Bankitalia, socio unico di Cariferrara, li ha prospettati a metà degli 847 dipendenti, ma i sindacati hanno fatto le barricate, minacciano lo sciopero generale, per una misura che non ha precedenti tra istituti nazionali. Così alla fine è arrivato l’accordo per attingere al fondo.
«Se Unicredit e Mps lo utilizzeranno troppo, corriamo il rischio che il fondo esuberi non sia capiente – dice Lando Sileoni, segretario del sindacato autonomo Fabi – ma le uscite volontarie e incentivate sono e restano l’unico strumento». Per Sileoni le ultime mosse del governo sono apprezzabili «ma bisogna fare di più per mettere definitivamente al riparo il settore entro ottobre 2019, quando la poltrona di Mario Draghi in Bce passerà a qualche falco». Agostino Megale, segretario della Fisac Cgil, lancia un’idea mutualistica per i lavoratori in eccesso che non rientrassero nel Fondo: «La solidarietà è già stata usata in banche come Etruria o Cariferrara; se non bastasse potremmo pensare ad assunzioni concordate con altre banche che hanno piani di crescita». Ma il mutualismo bancario è già costato 7 miliardi al settore nel 2016, e resta una zeppa su prospettive di crescita flebili.