Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  gennaio 04 Mercoledì calendario

La Rai perde i pezzi, via Verdelli

LA NARRAZIONE di una Rai rivoluzionata, modernizzata e finalmente sottratta al controllo dei partiti svanisce all’orizzonte come l’isola della fata Morgana con la bocciatura del piano editoriale e con le conseguenti dimissioni dell’uomo che l’aveva studiato e proposto, Carlo Verdelli.
UNA BOCCIATURA annunciata dal clima di ostilità che sin dal primo momento ha circondato a viale Mazzini questo direttore editoriale senza targa e senza sponsor, accolto con palese fastidio da un consiglio d’amministrazione dove sono stati proprio i giornalisti consiglieri a bucargli le gomme. E non bastano le parole che vorrebbero essere diplomatiche, la promessa di una «rivisitazione» del piano appena accantonato, ad addolcire la durezza di un affondamento che si è consumato in una riunione convocata per discutere quel progetto ma tenendone fuori proprio il suo autore.La verità è che questo Cda, frutto tardivo di una visione spartitoria della più grande azienda culturale del Paese – 13.500 dipendenti, 1.700 giornalisti – non ha mai accettato davvero di voltare pagina, di rompere con il passato e di puntare su un progetto innovativo. E soprattutto non ha sopportato sin dall’inizio l’idea che il controllo dell’informazione della Rai fosse affidato a un giornalista fuori dai giochi, che avrebbe voluto smantellare la lottizzazione travestita da pluralismo. Forse senza aver messo davvero nel conto cosa significasse affrontare di petto il moloch di viale Mazzini.
Adesso l’assedio è finito. Un mese fa si era dimesso Francesco Merlo, che Verdelli aveva voluto nella sua squadra. Ieri ha preso cappello lo stesso direttore editoriale: aveva resistito quando erano state ignorate le sue proposte per i nuovi programmi, aveva fatto buon viso a cattivo gioco quando Antonio Campo Dall’Orto aveva indicato per le direzioni dei Tg nomi che non erano nella rosa che lui gli aveva sottoposto, ma non poteva restare più al suo posto dopo il siluramento del suo progetto. Ha vinto, alla fine, il muro di gomma tenuto in piedi proprio dai giornalisti che fanno parte del Cda, a cominciare dalla presidente Monica Maggioni che non ha mai speso una parola per difendere Verdelli e la sua squadra, per finire con Francesco Siddi e Arturo Diaconale che sono stati i protagonisti di un vero e proprio tiro al bersaglio.
Ma cosa c’era di così pericoloso nelle 60 pagine di quel piano? Tante cose, viste con gli occhi di chi si illude di custodire in una bolla di sapone a-temporale.
Un’idea di televisione ormai fuori dal tempo. C’era la nascita della Newsroom Italia, una redazione nazionale che avrebbe prodotto i notiziari a flusso continuo di RaiNews24 ma anche i telegiornali regionali. C’era l’idea di Rai Italy, un canale in lingua inglese per portare il nostro giornalismo televisivo sul palcoscenico internazionale. C’era il progetto del TgSud, un telegiornale «meridionale e meridionalista», con sede a Napoli, nella speranza di raccontare con un linguaggio nuovo la quotidianità del Mezzogiorno. C’era la proposta di trasferire a Milano il Tg2, non per farne il megafono del leghismo come sognava Bossi ma per restituirlo, allontanandolo dal Palazzo, alla sua storia di «telegiornale laico, moderno e anche sperimentale».
C’era il tentativo di far vincere alla Rai la sfida del web, con un sito d’informazione che sotto la direzione di Milena Gabanelli potesse uscire dai numeri marginali di oggi per competere con i grandi quotidiani sulla nuova frontiera del digitale. E c’era, infine, il disegno di riformulare i confini territoriali dell’azienda Rai, superando le 21 sedi regionali di oggi con cinque macro-aree governate da Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli e un presidio giornalistico – con almeno un “redattore multimediale” – in ognuno dei 118 capoluoghi di provincia.
Non bisognava essere un addetto ai lavori per capire subito che tutto questo avrebbe fatto saltare tutti gli equilibri, centrali e periferici, sui quali si è fondato finora il controllo dei partiti sulla Rai, quel sistema che il direttore generale mette sotto l’ombrello elegante del «pluralismo» ma che alla fine somiglia assai alla vecchia lottizzazione.
«L’orologio dell’informazione Rai dà l’impressione di essersi fermato alla fine del Novecento» ha scritto Verdelli nel suo piano. La feroce ostilità con cui lui e il suo piano sono stati affrontati e infine sconfitti è la prova evidente che a viale Mazzini il cambiamento fa ancora paura. È la conferma che la politica non vuole fare nessun passo indietro. Ed è l’indizio che sta diventando un miraggio l’ambizioso progetto innovatore che era stato annunciato da Antonio Campo Dall’Orto.