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 2017  gennaio 03 Martedì calendario

La moralità e la storia islamica. Perché la moderna Bisanzio è nel mirino del Califfato

MOLTE PERSONE che vivono in Paesi che affacciano sul Mediterraneo cominceranno il nuovo anno col timore di nuovi attentati. Quelle che vivono in Turchia hanno giustificati motivi per avvertire questo pericolo in modo più acuto e profondo. Negli ultimi 18 mesi la Turchia è stata colpita da una duplice ondata di violenza terroristica che ha ucciso più di 400 persone. Alcuni degli attacchi sono opera di fazioni curde violente. Altri, fra cui quasi tutti quelli che hanno provocato un elevato numero di vittime civili, sono stati eseguiti o ispirati dall‘Isis.
L’attacco di Capodanno a Istanbul non è stato una sorpresa. È stato rivendicato dall’Isis e probabilmente è stato eseguito dalla stessa rete che la scorsa estate aveva colpito l’aeroporto. Di certo l’obbiettivo – un locale notturno frequentato dall’élite laica e benestante del Paese – è analogo a quello di molti altri attentati perpetrati nel corso degli anni. Una ragione per prendere di mira questi locali è lo sdegno morale puritano nei confronti della decadenza che incarnano; un’altra ragione è la sensazione di adempiere a un dovere religioso. Nella sua rivendicazione l’Isis ha spiegato che l’organizzazione voleva colpire i cristiani e una potenza musulmana che li protegge. Questa protezione fa della Turchia, e per estensione dei turchi, un Paese “apostata”. Secondo quasi tutti i teologi salafiti, la punizione per l’apostasia è la morte. Secondo i jihadisti, combattere l’apostasia con la forza è un dovere per tutti i credenti.
Ma gli scopi dell’Isis non sono influenzati soltanto dalla teologia, ma dall’escatologia e da una visione distorta della storia islamica. E pure in questo caso la Turchia è sulla linea del fuoco. La rivista dell’Isis prima si chiamava Dabiq, nome di un villaggio siriano dove, secondo una profezia, avrà luogo lo scontro finale tra il bene e il male. Ma l’Isis è stato cacciato da Dabiq in ottobre e la rivista ha cambiato nome in Roumiya, Roma. Per l’Isis Roumiya non designa soltanto l’odierna capitale italiana (indubbiamente un bersaglio), ma anche una Roma più antica: Bisanzio, la moderna Istanbul.
Poi c’è il brutale realismo strategico che ormai abbiamo imparato ad attenderci dal gruppo estremista. L’Isis probabilmente ha valutato che il presidente Recep Tayyip Erdogan, a luglio scampato per un pelo a un golpe militare, è vulnerabile. E probabilmente ritiene anche che la Turchia sia matura per una campagna di destabilizzazione analoga a quella che il gruppo ha intrapreso in Arabia Saudita, Egitto e altri Paesi della regione.
Infine c’è il ruolo attivo giocato dalla Turchia, un membro della Nato, nella coalizione a guida americana che sta combattendo l’Isis in Siria e in Iraq. Nei primi della guerra civile siriana, la Turchia, a maggioranza sunnita, ha offerto il suo sostegno ai ribelli sunniti, convinta che avrebbero presto cacciato il presidente Bashar al Assad e insediato a Damasco un regime islamista amico di Ankara. Con una politica di frontiere aperte ha permesso a foreign fighters provenienti da tutto il Medio Oriente e l’Europa di affluire in Siria, insieme ad armi e munizioni. Molti dei combattenti e una parte dei rifornimenti hanno raggiunto l’Isis prima che il gruppo cominciasse la sua guerra lampo del 2014. Le reti di supporto all’interno della Turchia stessa (nelle città del Sud e perfino a Istanbul) sono state sottovalutate e la minaccia che rappresentavano è stata ignorata.
Tutto questo ora è cambiato: i servizi turchi combattono l’islamismo armato con la stessa fermezza con cui combattono l’estremismo curdo e altre presunte minacce per la nazione, come il movimento fedele al religioso Fethullah Gülen, rifugiato negli Usa. I controlli alle frontiere sono effettivi e la Turchia ha inviato un consistente numero di soldati in Siria, unica potenza straniera oltre all’Iran a fare una cosa del genere. Il suo scopo è duplice: tenere le milizie curde fuori da aree strategiche nei dintorni di Aleppo e spingere l’Isis lontano dal confine turco, sottraendogli il controllo di una zona di frontiera dalla cruciale rilevanza strategica. Le truppe turche evitano scontri diretti con quelle di Assad: un cessate il fuoco negoziato la scorsa settimana da Russia e da Turchia fra ribelli e governo è appena stato avallato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Non include l’Isis. Che l’Isis voglia indebolire la Turchia, farle pagare un prezzo elevato per il suo recente intervento, distrarre e demoralizzare i suoi servizi, è quindi comprensibile. Il messaggio a Erdogan è inequivocabile. C’è anche un messaggio implicito per gli europei in questa violenza, anche se forse l’Isis non vuole che lo ascoltiamo. Attacchi come quello di Berlino prima di Natale hanno l’effetto di distrarre la nostra attenzione dal fatto che l’obbiettivo principale dell’Isis è (ed è sempre stato) regionale. Lunedì il gruppo ha lanciato una serie di sanguinosi attentati dinamitardi in Iraq. Nel corso dell’ultimo mese ha colpito in Yemen, in Giordania e in altri Paesi del Medio Oriente. Molti analisti hanno correttamente pronosticato un’impennata della violenza man mano che l’Isis continua a perdere terreno e i suoi affiliati sono sempre più disorientati. Ma difficilmente il punto focale di questi attacchi sarà Milano, Amburgo o Washington. Gli obbiettivi privilegiati saranno più vicini alle roccaforti, ormai traballanti, dei miliziani. L’attentato di Istanbul molto probabilmente non sarà l’ultimo.