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 2005  novembre 14 Lunedì calendario

un anno dopo aver instaurato la dittatura in Romania, Nicolae Ceausescu mise fuorilegge l’aborto

• un anno dopo aver instaurato la dittatura in Romania, Nicolae Ceausescu mise fuorilegge l’aborto.’ "II feto appartiene alla collettività", dichiarò. "Chiunque si sottragga alla maternità o alla paternità è paragonabile a un disertore che viene meno all’obbligo di assicurare la continuità nella nazione."

Sotto il regno di Ceausescu simili roboanti proclami erano all’ordine del giorno: l’intero suo progetto di società - dar vita a una nazione all’altezza dell’uomo nuovo socialista - veniva portato avanti in modo grandioso. Il dittatore si fece costruire vere e proprie regge, ignorando e brutalizzando i cittadini. Con la politica di dismissione dell’agricoltura a favore dell’industria, impose a migliaia di contadini il trasferimento coatto in casermoni privi di riscaldamento. Conferì incarichi di governo a quaranta membri della sua famiglia, tra i quali la moglie Elena, che pretese quaranta case e un adeguato corredo di gioielli e pellicce. La signora Ceausescu, ufficialmente nota come La Miglior Madre Che La Romania Potesse Avere, di materno aveva ben poco. "I vermi non sono mai sazi, per quanto si dia loro da mangiare", fu il suo commento quando i romeni iniziarono a protestare contro la penuria di alimenti innescata dalla fallimentare politica del marito.
Del resto, faceva spiare persino i figli, per essere certa della loro lealtà.

La messa al bando dell’ aborto voluta da Ceausescu rispondeva a uno degli obiettivi che più gli erano cari: aumentare in breve tempo la potenza della Romania mediante un’esplosione demografica. Fino al 1966, la Romania era uno dei paesi più permissivi al mondo in materia di interruzione volontaria di gravidanza: era di fatto l’anticoncezionale più in voga, a tal punto che si verificavano quattro aborti per ogni nascita. Ma ecco che, dall’oggi al domani, all’improvviso non si poteva più abortire. Le uniche deroghe erano quelle concesse alle donne che avessero già quattro figli o che ricoprissero posizioni di rilievo in seno al Partito comunista. Venne bandita al contempo ogni forma di contraccezione e di educazione sessuale. Agenti dei governo, sarcasticamente ribattezzati con il nomignolo di "polizia mestruale", compivano regolari ispezioni nei luoghi di lavoro per sottoporre le donne a test di gravidanza. Quelle che risultavano ripetutamente negative si vedevano appioppare una salata "imposta sull’astinenza".

Gli incentivi escogitati da Ceausescu sortirono l’effetto voluto. A un anno dalla messa fuorilegge dell’aborto, il tasso di natalità in Romania era raddoppiato. Ma si trattava di bambini nati in un paese in cui, a meno di non far parte del clan di Ceausescu o dell’élite comunista, la vita era miserevole. Rispetto ai bambini romeni nati solo un anno prima, la schiera di neonati che faceva seguito alla messa al bando dell’aborto era destinata a una riuscita peggiore su tutti i fronti: sarebbero andati peggio a scuola, avrebbero avuto meno successo sul lavoro e avrebbero avuto maggiori probabilità di diventare dei delinquenti.’

L’ aborto rimase illegale fino a quando Ceausescu non perse il potere. Il 16 dicembre del 1989 migliaia di cittadini si riversarono per le vie di Timisoara per protestare contro un regime

che aveva devastato il paese. 1 dimostranti erano perlopiù adolescenti e studenti delle superiori. La polizia li massacrò a decine. Uno dei leader dell’opposizione, un docente quarantunenne, racconterà che era stata proprio la figlia tredicenne a insistere perché si facesse coraggio e partecipasse alla protesta: "L’aspetto più interessante è che sono stati i nostri figli a insegnarci il coraggio: ragazzi tra i tredici e i vent’anni". Qualche giorno dopo il massacro di Timisoara, Ceausescu tenne a Bucarest un coniizio davanti a circa 100.000 persone. Ancora una volta, i giovani si presentarono in forze. Iniziarono a fischiare il dittatore al grido di "Timisoara!" e "Abbasso gli assassini!" La sua ora era scoccata. Tentò di fuggire dal paese insieme alla moglie con un miliardo di dollari in tasca, ma i due furono catturati, sottoposti a un processo sommario e quindi, proprio il giorno di Natale, giustiziati da un plotone di esecuzione.

Tra tutti i leader comunisti deposti negli anni che precedettero o seguirono l’implosione dell’Unione Sovietica, Ceausescu fu l’unico ad andare incontro a una fine violenta. Non sfugga il fatto che il suo destino venne deciso in larga misura dai giovani, molti dei quali, se non fosse stato per il divieto imposto dal dittatore sull’aborto, non sarebbero mai venuti al mondo.

• La vicenda dell’aborto in Romania può parere priva di ogni rapporto con l’evolvere della delinquenza in America nel corso degli anni Novanta. Ma non è cosi. In un certo senso, rappresenta la copia al negativo della storia del crimine negli USA, alla quale si riallaccia in un preciso momento nel tempo: quel Natale del 1989, quando Ceausescu comprese a caro prezzo - con una pallottola nel cranio - come la messa al bando dell’aborto avesse avuto implicazioni inizialmente inimmaginabili? Quel giorno, infatti, negli Stati Uniti la criminalità era ai massimi storici. Nei quindici anni precedenti, l’incidenza dei reati violenti era aumentata dell’80 per cento. La delinquenza monopolizzava non solo i telegiornali, ma anche la conversazione tra privati cittadini. Quando, all’inizio degli anni Novanta, il tasso di criminalità iniziò a calare, ciò avvenne in modo talmente brusco e rapido da cogliere tutti di sorpresa. Alcuni esperti, poi, impiegarono diversi anni a capire che in effetti la criminalità era in calo, talmente radicato era il loro convincimento che non potesse far altro che aggravarsi. Alcuni di loro si ostinavano a prevedere scenari sempre più desolanti, nonostante fossero smentiti dai fatti: dopo una lunga impennata, la delinquenza stava seguendo il cammino opposto, in una discesa destinata a proseguire sino a toccare i livelli di quarant’anni prima. A questo punto gli esperti si precipitarono ad accampare giustificazioni per il granchio che avevano preso in modo così plateale. Il criminologo James Alan Fox spiegava come il monito che aveva lanciato contro il "bagno di sangue" fosse in realtà un’iperbole studiata a tavolino. "Non ho mai detto che il sangue sarebbe scorso a fiumi nelle nostre vie", si giustificò, "ma ho volutamente fatto uso di terminologie forti, come ’bagno di sangue’, per richiamare l’attenzione del pubblico. E ha funzionato. Non accetto l’accusa di allarmismo, quindi." (Chi ha l’impressione che Fox stia operando una distinzione di lana caprina, quella tra "bagno di sangue" e "sangue che scorre a fiumi", tenga presente che, al momento di ritrattare, anche gli esperti possono vedersi costretti ad arrampicarsi sugli specchi.)’ Una volta passata la grande paura, una volta recuperata la normalità di una vita senza l’assillo della violenza, la gente iniziò a chiedersi: ma tutti quei delinquenti dove sono andati a finire? Da una parte, rispondere all’interrogativo pareva impossibile. Se nessuno - tra criminologi, poliziotti, economisti, politici e altri addetti ai lavori - era stato in grado di prevedere il rapido declino della criminalità, come attendersi che proprio costoro ne avrebbero spiegato le cause?
• Eppure, quella composita schiera d’esperti era già pronta a mettere in campo una moltitudine di ipotesi. A scorrere a fiumi sarebbe stato l’inchiostro. Le conclusioni degli innumerevoli articoli di giornale pubblicati in materia erano invariabilmente quelle dell’ultimo esperto che aveva aperto bocca. Ecco il variopinto panorama delle cause addotte a spiegazione, elencate per ordine di frequenza, nei vari articoli pubblicati al riguardo tra il 1991 e il 2001 dalle prime dieci testate inserite nella banca dati LexisNexis: Spiegazione data al calo della criminalitàN. di citazioni 1 . Strategie di polizia innovative52 2. Scarcerazioni meno facili47 3. Cambiamenti nel mercato dei crack e di altri stupefacenti33 4. Invecchiamento della popolazione32 5. Inasprimento della legislazione sul porto d’armi32 6. Espansione dell’economia28 7. Aumento degli organici di polizia26 8. Altro (maggior ricorso alla pena capitale, legislazione sul possesso abusivo di armi, rottamazione delle armi da fuoco eccetera)34 Se vi piacciono i giochi a quiz, provate a capire quali, tra le varie spiegazioni addotte, risultino plausibili e quali no. Vi diamo un suggerimento: tra le sette spiegazioni vere e proprie (escludendo cioè il punto 8), soltanto tre possono aver contribuito al calo della criminalità, mentre le altre quattro sono fittizie, frutto di fantasia, parzialità o pio desiderio bello e buono. Ulteriore aiutino: una delle principali cause misurabili di tale riduzione dei reati non figura affatto in quella lista, il che significa che non ha raccolto l’attenzione dei media.
• Iniziamo da un dato di fatto: l’espansione dell’economia. Il ridimensionarsi dei crimine registrato a partire dai primi anni Novanta è andato di pari passo con una crescita economica ruggente alla quale si è accompagnato un calo della disoccupazione. Se ne potrebbe concludere che l’economia abbia funzionato da randello contro la delinquenza. Eppure, a una più attenta analisi dei dati questa teoria crolla come un castello di carte. t pur vero che un mercato del lavoro più ricco di opportunità rende meno allettanti alcune tipologie di reato, ma questo vale unicamente per i crimini dal movente prettamente economico - furto con scasso, rapina, furto d’auto - in contrapposizione a reati violenti quali omicidio, aggressione e stupro. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che a un calo della disoccupazione di un punto percentuale corrisponde una diminuzione dei reati non violenti pari all’1 per cento. Eppure, negli anni Novanta a un calo della disoccupazione del 2 per cento ha fatto da contraltare un vero e proprio tracollo dei reati non violenti: il 40 per cento in meno. Ma la teoria dell’espansione economica si vede contraddetta anche dal dato relativo ai reati violenti. Negli anni Novanta, infatti, il reato che è diminuito più di tutti gli altri è proprio l’omicidio, mentre una serie di attendibili studi scientifici ha dimostrato che non sussiste alcun legame tra andamento dell’economia e violenza criminale. Ciò trova ulteriore conferma nell’esame di un decennio non molto lontano, gli anni Sessanta, quando a una crescita economica impetuosa corrispose una non meno impetuosa escalation di violenza. La crescita economica sostenuta che ha caratterizzato gli anni Novanta non spiega pertanto, malgrado le apparenze, il calo della criminalità.
• A meno, naturalmente, di non voler intendere l’"economia" in senso piuttosto lato, fino a includervi la costruzione e la gestione di centinaia di carceri. Il che ci porta a un’altra spiegazione addotta: scarcerazioni meno facili. Forse è opportuno rovesciare i termini della questione e, prima di chiedersi perché il crimine sia calato, domandarsi anzitutto che cosa ne abbia precedentemente comportato l’esplosione. Nella prima metà del Novecento, l’incidenza dei reati violenti negli USA era rimasta sostanzialmente costante. Ma nei primi anni Sessanta prese a crescere. Con il senno di poi, appare chiaro che ciò si dovette in parte a un sistema giudiziario più permissivo. Negli anni Sessanta la percentuale di detenuti scese e le pene detentive divennero più brevi. Ciò è riconducibile a una maggiore sensibilità per i diritti degli imputati (era ora, direbbero alcuni; fin troppa, ribatterebbero altri). Al contempo, nei confronti della delinquenza, tra i politici iniziò a diffondersi un certo lassismo, "nel terrore di passare per razzisti, dal momento che un numero spropositato di reati è commesso da afroamericani e ispanicí", ebbe a scrivere l’economista Gary Becker. Pertanto, chiunque avesse una certa propensione al crimine assisteva al sorgere di una serie di incentivi: una minor probabilità di finire in carcere e, anche in questo caso, una pena detentiva più breve. Poiché, come chiunque altro, anche i criminali rispondono prontamente agli incentivi, ciò che ne conseguì fu un’escalation della violenza.’ Ci volle del tempo, oltre a estenuanti polemiche, ma questi incentivi alla fine vennero ridotti. Malviventi che in passato sarebbero stati rimessi in libertà - specie per reati di droga o per violazioni del regime di libertà vigilata - ora rimanevano al fresco. Tra il 1980 e il 2000, il numero di incarcerati con l’accusa di reati di droga aumentò di quindici volte. Le pene detentive, specie per i reati violenti, si allungarono. L’effetto complessivo fu spettacolare. Nel 2000, la popolazione carceraria era pari a 2 milioni di unità, circa il quadruplo rispetto al 1972. E una buona metà di quell’incremento si ebbe negli anni Novanta.’ La correlazione tra inasprimento delle pene e riduzione del tasso di criminalità appare molto convincente. Una carcerazione più dura ha dimostrato di fungere sia da deterrente (per gli aspiranti criminali), sia da profilassi (per i delinquenti già sotto chiave). Nonostante tutto ciò appaia logico, alcuni criminologi hanno scelto di andare contro la logica. Uno studio accademico del 1977, dal titolo "Per una moratoria alla costruzione di penitenziari", osservava che i tassi di criminalità sono elevati laddove elevato è il numero di detenuti, concludendone che i reati sarebbero calati se solo si fossero svuotate un po’ le carceri.’ Grazie al cielo, i secondini non si precipitarono a spalancare le porte delle celle in attesa di veder calare il numero di illeciti. Come avrebbe successivamente commentato il politologo John J. Dilulio Jr. : "Ci vuole proprio un dottorato in criminologia per dubitare che tenere i delinquenti in carcere faccia calare la criminalità".1 Le argomentazioni a sostegno della moratoria riposavano su un malinteso: la confusione tra correlazione e nesso causale. Si prenda in esame un’altra ipotesi. Il sindaco di una grande città si rende conto che i suoi concittadini si danno a grandi festeggiamenti ogniqualvolta la squadra di calcio cittadina vince il campionato. Rimane colpito da questa correlazione, ma come gli autori di quello studio confonde la causa con l’effetto. L’ anno dopo, quindi, il sindaco decreta che quei grandi festeggiamenti si tengano prima dell’inizio del campionato, operazione che, nella sua mente dalle idee confuse, dovrebbe costituire una garanzia certa di vittoria. Le ragioni per valutare negativamente l’aumento della popolazione carceraria sono certo molteplici. A nessuno fa piacere constatare che una quota così consistente di cittadini, specie di colore, viva dietro le sbarre. E inoltre chiaro che la detenzione non affronta il problema alla radice, cioè le vere cause del crimine, che sono tanto numerose quanto complesse. Da ultimo, la carcerazione non è certo una soluzione a buon mercato: ogni detenuto costa allo Stato circa 25.000 dollari all’anno. Se però l’obiettivo che ci si pone è spiegare le ragioni del ridimensionamento del crimine negli anni Novanta, 1 a detenzione è certo una delle cause principali. A essa è imputabile circa un terzo del calo dei reati.
• Un’altra spiegazione del calo della criminalità spesso citata insieme alla precedente è quella del maggior ricorso alla pena capitale.9 Negli anni Ottanta e Novanta, il numero di giustiziati negli USA è quadruplicato, spingendo molti a concludere - nel quadro di un dibattito che si trascina da decenni - che la pena di morte contribuisce a ridurre la delinquenza. In quel dibattito, però, sono stati persi di vista due elementi fondamentali. Anzitutto, data la rarità dell’esecuzione della pena capitale negli USA e la tempistica lunghissima che essa richiede, come spauracchio diviene inefficace agli occhi di qualsiasi criminale degno di questo nome. Malgrado le esecuzioni siano quadruplicate, negli anni Novanta sono state solo 478. Qualunque genitore abbia detto a un bambino capriccioso: "Guarda, conto fino a dieci e poi, questa volta, te le suono davvero!" conosce perfettamente la distinzione tra un deterrente e le vacue minacce. Lo Stato di New York, per esempio, al momento in cui questo libro andava in stampa negli USA non aveva ancora giustiziato nessuno, dal ripristino della pena capitale nel 1995. Persino fra i detenuti nel braccio della morte la percentuale di esecuzioni è pari al 2 per cento annuo, mentre per i membri della Black Gangster Disciple Nation la probabilità di lasciarci le penne è pari al 7 per cento ogni anno. Se la vita nel braccio della morte è più sicura della vita di strada, diventa difficile credere che la paura della pena capitale abbia un qualsivoglia effetto deterrente sulle scelte dei criminali. Come nel caso della multa di tre dollari imposta ai genitori ritardatari nelle scuole materne israeliane, il disincentivo della pena capitale non viene preso abbastanza sul serio da incidere sui comportamenti. Il secondo limite della teoria sull’efficacia della pena di morte è ancora più ovvio. Ammesso e non concesso che serva da deterrente, in che misura ciò avviene? In uno studio del 1975, a tutt’oggi abbondantemente citato, l’economista lsaac Ehrlich avanza una stima generalmente ritenuta ottimistica: giustiziare un criminale servirebbe a impedirgli di commettere altri 7 ornicidi.11 Bene, facciamo due conti. Nel 1991, le condanne a morte eseguite negli USA sono state 14; nel 2001, 66. In base ai calcoli di Elirlich, alle 52 esecuzioni capitali in più sarebbero dovuti corrispondere 364 omicidi in meno nel 2001, non pochi, in termini assoluti, ma appena il 4 per cento del calo complessivo registrato quell’anno. Pertanto, anche tenendo per valido lo scenario ottimistico prospettato da un fautore della pena capitale, questa spiegherebbe soltanto un venticinquesimo della diminuzione degli omicidi verificatasi negli anni Novanta. E poiché viene raramente comminata per reati diversi dall’on-úcidio, la pena di morte non serve comunque a spiegare il brusco calo registrato anche dagli altri reati violenti. Risulta quindi del tutto improbabile che la pena capitale, nelle modalità con cui viene applicata oggi negli USA, influisca sul tasso di criminalità. Persino molti di coloro che in passato ne avevano sostenuto la validità sono giunti oggi a questa conclusione. "Mi sento moralmente e intellettualmente in obbligo di riconoscere che l’esperimento della pena capitale è fallito", affermava nel 1994 il giudice della Corte Suprema Harry A. Blackimin, ossia a quasi vent’anni da quando votò per ripristinarla. "Non sono più disposto a fare altri esperimenti del genere"." Insomma, a far calare il tasso di criminalità non sono state né la crescita economica, né la pena di morte, ma il maggior ricorso alle pene detentive sì. Delinquenti che non si sono certo recati nelle patrie galere di loro spontanea volontà. Qualcuno ha indagato, li ha acciuffati e ha istruito il dossier che li avrebbe fatti finire in gattabuia. Il che ci conduce in modo del tutto naturale a due altre probabili spiegazioni, tra loro correlate:
• Strategie di polizia innovative Aumento degli organici di polizia Iniziamo dalla prima. Negli Stati Uniti, il numero di agenti di polizia rispetto alla popolazione è salito nel corso degli anni Novanta del 14 per cento.` Ma questo può bastare a spiegare un calo dei reati? La risposta parrebbe "ovviamente sì", eppure il nesso non è così facilmente dimostrabile. Quando la criminalità è in aumento, l’opinione pubblica rumoreggia e chiede a gran voce più sicurezza, ecco che si reperiscono più fondi per le forze dell’ordine. Pertanto, se ci si soffermasse unicamente sulla correlazione tra numero di agenti e numero di reati, bisognerebbe concluderne che a più polizia corrisponde più criminalità. Ciò non significa, naturalmente, che a causare i reati siano gli agenti di pubblica sicurezza, esattamente come non significa, con buona pace di certi criminologi, che aprire le carceri faccia diminuire la delinquenza. Per dimostrare l’esistenza di un nesso causale occorre prendere in esame uno scenario in cui vengano assunti più poliziotti per ragioni completamente svincolate dall’aumento della criminalità. Se, per esempio, gli agenti venissero distribuiti a caso in alcune città e non in altre, sarebbe allora interessante verificare quale sia l’impatto della maggior presenza di forze dell’ordine sulla malavita locale. In realtà, è proprio questo lo scenario a cui danno luogo tal volta i politici a caccia di consensi. Nei mesi che precedono una tornata elettorale, i sindaci uscenti tentano immancabilmente di attrarsi le simpatie degli elettori più sensibili alla difesa dell’ordine ingaggiando poliziotti, anche in realtà in cui il crimine non tende affatto a crescere. Confrontando quindi l’incidenza dei reati in un gruppo di città in cui si siano recentemente svolte delle elezioni (e che abbiano pertanto dislocato sul territorio più forze di polizia) con un altro gruppo di centri urbani in cui non vi siano state elezioni (e quindi neanche un maggior dispiegamento di forze dell’ordine) è possibile estrapolare l’effetto che un aumento degli organici di polizia può avere sul tasso di criminalità. La risposta è inequivocabile: sì, aumentare il presidio del territorio serve a ridurre l’incidenza dei reati. Ancora una volta, è bene domandarsi anzitutto perché la criminalità avesse registrato un aumento. Tra il 1960 e il 1985 il numero degli agenti di polizia, rapportato al numero di reati commessi, è crollato del 50 per cento. In alcuni casi, ingaggiare più poliziotti era ritenuto contrario allo spirito libertario dei tempi; in altri, molto più prosaicamente un lusso che non ci si poteva permettere. 13 Questo dimezzarsi degli organici di polizia si traduceva, grosso modo, in un dimezzarsi delle probabilità che i delinquenti venissero assicurati alla giustizia. Abbinato al lassismo che, come abbiamo visto, caratterizzava all’epoca l’altro emisfero del pianeta giudiziario, ossia la magistratura, il minor presidio del territorio rappresentava un forte incentivo a delinquere. Arrivati agli anni Novanta risultavano orinai cambiate non solo le filosofie di fondo, ma anche le esigenze della collettività. La tendenza alla riduzione delle forze di pubblica sicurezza si inverfi e in tutte le aree urbane del paese si riprese ad assumere agenti di polizia. Il rinforzo degli organici delle forze dell’ordine ebbe non soltanto un effetto deterrente, ma con senti anche una maggiore efficacia nell’assicurare alla giustizia delinquenti che altrimenti sarebbero rimasti a piede libero. Alla maggior presenza di tutori dell’ordine si deve il 10 per cento circa del calo dei reati commessi. Ma a cambiare nel corso degli anni Novanta non furono soltanto le forze di pubblica sicurezza. Veniamo così alla causa addotta con maggior frequenza per spiegare la riduzione della criminalità: le strategie di polizia innovative. La tesi che una polizia più evoluta - fatta di eroi animati da nobili intenti anziché di rozzi energumeni - riesca a contrastare meglio il crimine ha sempre fatto molti proseliti. Tale teoria è assurta ben presto ad atto di fede perché fa leva su tutti quei fattori che, nella lettura di John Kenneth Galbraith, contribuiscono all’instaurarsi della saggezza convenzionale: la facilità con cui una data idea può essere recepita e il grado in cui pare concorrere al quieto vivere dei più. Questo copione andò in scena con toni drammatici a New York, quando il neoletto sindaco Rudolph Giuliani e il commissario di polizia che si era scelto, William Bratton, promisero solennemente di risolvere una volta per tutte l’emergenza di una criminalità divenuta ormai insostenibile. Bratton ripensò il ruolo della pubblica sicurezza e traghettò le forze cittadine dell’ordine verso quella che un funzionario di polizia definirà "la nostra era ateniese", un’epoca in cui vecchie prassi ormai fossilizzate cedettero il passo a nuove idee." Invece di ostinarsi a vezzeggiare i suoi comandanti distrettuali, Bratton chiese loro di rendergli conto. Anziché puntare unicamente sui soliti metodi consolidati da un pezzo, volle l’introduzione di nuove tecnologie come il CompStat, un sistema computerizzato per l’individuazione dei punti più "caldi" sul territorio. Le innovative concezioni di Bratton scaturivano dalla cosiddetta teoria del vetro rotto, messa a punto dai criminologi iames Q. Wilson e George Kelling. In base a detta teoria, un problema inizialmente di poco conto, se ignorato, può sfociare in disagi ben più gravi. In altre parole, se qualcuno infrange il vetro di una finestra e si rende conto che questa non viene riparata immediatamente, la interpreterà come la licenza a spaccare tutti gli altri vetri dell’edificio, e magari a darlo anche alle fiamme indisturbato.` Insomma, in quel clima di continui omicidi, gli agenti di Bratton iniziarono a perseguire penalmente fatti di cui sino ad allora la polizia non si occupava neppure: scavalcare il tomello d’ingresso in metropolitana, mendicare in forma aggressiva, orinare sulla pubblica via, lavare - si fa per dire - il parabrezza delle auto ai semafori a meno che a richiederlo non fosse il conducente. A molti newyorchesi, questo inedito pugno di ferro piaceva. E ancor più piaceva loro l’idea, vigorosamente propalata da Bratton e Giuliani, che la tolleranza zero su questo tipo di illegalità spicciole servisse a rendere la vita impossibile anche ai delinquenti veri e propri: chi ci dice che il tizio che salta oggi il tomello del metrò non abbia fatto fuori qualcuno non più tardi di ieri? Chi ci assicura che quel brutto ceffo che sta orinando in un viale del centro non stia andando a svaligiare un appartamento? Quando i reati violenti iniziarono a ridursi in modo spettacolare, i newyorchesi furono ben lieti di renderne atto al loro efficientissimo sindaco cresciuto proprio a Brooklyn e al suo capo della polizia, con quel volto allungato e quel forte accento bostoniano. Ma due uomini dalla personalità tanto forte non erano molto propensi a dividersi gli allori. E così, quando sull’onda del rinnovato clima di sicurezza in città a finire sulla copertina del Time fu Bratton, e non Giuliani, il capo della polizia dovette dimettere. Aveva ricoperto la carica di commissario per 27 mesi soltanto. La città di New York ha fatto da apripista nell’innovazione delle strategie di polizia nel corso degli anni Novanta, quando la criminalità prese a crollare, e del resto è stato il grande centro urbano del paese in cui quel crollo è risultato più spettacolare. Il tasso di omicidi è sceso da 30,7 ogni 100.000 abitanti nel 1990 a 8,4 nel 2000, con un calo del 73,6 per cento. Eppure a una più attenta analisi ci si rende conto che, probabilmente, le nuove strategie di polizia hanno avuto una parte solo secondaria nella riduzione di quelle proporzioni. Anzitutto, la discesa del numero di reati commessi a New York è iniziata nel 1990 e, alla fine del 1993, l’incidenza dei reati contro il patrimonio e dei crimini violenti - incluso l’omicidio - era già calata del 20 per cento. Ma Giuliani sarà eletto sindaco, e nominerà Bratton, solo nel 1994: insomma, il ridimensionarsi della delinquenza era già in atto ben prima della loro venuta, e sarebbe proseguito anche dopo il siluramento di Bratton. In secondo luogo, all’introduzione di nuove strategie di polizia si accompagnò un parallelo ampliamento degli organici: questa sì che era un’innovazione determinante. Tra il 1991 e il 2001, gli organici della polizia newyorchese crebbero del 45 per cento, ossia a un ritmo più che triplo rispetto alla media nazionale. Come dimostrato in precedenza, un maggior numero di tutori dell’ordine ha l’effetto di ridurre la criminalità, a prescindere dalle strategie impiegate. In una stima restrittiva, un così massiccio rinforzo degli organici ha comportato a New York un calo della criminalità pari al 18 per cento; detraendo quindi questa percentuale dal calo registrato dagli omicidi nella Grande Mela, così da depurare quel dato dagli effetti del maggior numero di agenti di polizia, New York non è più in cima alla graduatoria con il 73,6 per cento, ma scivola al centro classifica. Tra l’altro, un gran numero delle nuove assunzioni aveva avuto luogo sotto Dinkins, il sindaco battuto alle ume da Giuliani. Per Dinkins era fondamentale assicurarsi il voto degli elettori più sensibili all’ordine pubblico, ben sapendo di doversi misurare con un ex procuratore federale come avversario; i due candidati avevano già corso l’uno contro l’altro anche quattro anni prima. In un certo senso, chi reputa che il calo della criminalità vada ascritto a Giuliani non ha tutti i torti: è stata la sua reputazione di intransigenza sul fronte del crimine a spingere Dinkins ad assumere tutti quei poliziotti. Naturalmente il maggior numero di agenti ha giovato a tutti, ma a Giuliani molto più che a Dinkins. A smontare definitivamente la tesi di un calo della criminalità imputabile alle strategie innovative basta una semplice considerazione spesso trascurata: negli anni Novanta la delinquenza si è ridotta un po’ ovunque, non soltanto a New York. Sono state ben poche le altre città a imitare le strategie newyorchesi, e di certo non con altrettanto zelo. Persino a Los Angeles, metropoli nota per la difficile situazione d’ordine pubblico che vi regna, il calo della criminalità è analogo a quello registrato a New York. Sarebbe ridicolo sostenere che, nella polizia, l’innovazione non sia salutare. A Bill Bratton va certamente riconosciuto il merito di aver dato nuovo slancio alle forze dell’ordine cittadine. Nulla, tuttavia, lascia supporre che i suoi metodi siano stati davvero la panacea, come invece hanno sostenuto gli organi di informazione. Per poter trarre delle conclusioni, quindi, non resta che continuare a monitorare l’impatto delle strategie innovative. Per esempio a Los Angeles, dove a capo della polizia è stato posto, alla fine del 2002, proprio Bill Bratton che, oltre a introdurre alcune delle innovazioni più peculiari già sperimentate a New York, si è affrettato a dichiarare che la sua priorità precipua era molto più terra-terra: trovare i fondi per assumere migliaia di nuovi agenti.`
• Inasprimento della legislazione sul porto d’armi Cambiamenti nel mercato del crack e di altri stupefacenti Anzitutto, le anni. Il dibattito su simili argomenti raramen_ te riesce a svolgersi a mente fredda. Da un lato, c’è chi sostiene che la legislazione sul porto d’armi è troppo restrittiva; dall’altro, chi ritiene l’esatto contrario. Com’è possibile che persone intelligenti abbiano della stessa realtà due visioni così inconciliabili? Perché le armi pongono una serie di problematiche non solo complesse, ma anche suscettibili di mutare radicalmente in funzione di una variabile: in che mani finiscono. Anzitutto è bene compiere un passo indietro e porsi un interrogativo semplice semplice: che cos’è un’arma da fuoco? t uno strumento in grado di uccidere, ma soprattutto è un fattore di forte turbativa dell’ordine naturale. Una pistola è in grado di stravolgere l’esito di qualsiasi controversia. Immaginiamo un alterco in un bar tra un "duro" e un tipo più tranquillo, e che il diverbio degeneri in rissa. E talmente scontato che ad avere la peggio sia il secondo, che non vale neanche la pena di rimboccarsi le maniche. L’ordine basato sulla spacconeria resta intatto. Ma se il tipo più tranquillo è armato, ecco che rischia di avere la meglio malgrado le apparenze. In un frangente del genere, l’arma può causare quindi più violenza. Facciamo un altro esempio. Una studentessa liceale esce una sera a fare due passi, quando all’improvviso viene minaccìata da un rapinatore. Che cosa accadrà se è armato? Che cosa accadrà se a essere armata è invece la ragazza? E che cosa accadrà se sono armati entrambi9 Chi è contrario alle armi n"batterebbe che, per prima cosa, bisognerebbe evitare che quell’arma finisca in mano al rapinatore; chi invece è a favore risponderebbe che è indispensabile armare la ragazza, così da consentirle di infrangere quello che è diventato un ordine naturale perverso: a essere armati sono soltanto i furfanti. (Se la ragazza riuscirà a mettere in fuga il rapinatore, in questo caso l’arma da fuoco sarà servita per avere meno violenza.) Ma ogni rapinatore con un minimo di cervello sarà certamente armato, anche perché in un paese in cui il mercato nero delle armi è fiorente, non ci vuol molto a procurarsi una pistola. Negli Stati Uniti le armi da fuoco sono così tante che, quand’anche si volesse dare una pistola a ogni cittadino, ne avanzerebbero ancora.` In quasi due terzi degli omicidi commessi nel paese c’è di mezzo un’arma da fuoco. Si tratta di una percentuale molto superiore a quella registrata in ogni altro paese industrializzato. Ma negli USA risulta nettamente superiore anche il tasso di omicidi, sarebbe quindi lecito il sospetto che questi siano più frequenti perché procurarsi una pistola è un gioco da ragazzi. E infatti è così, come la ricerca sta a dimostrare.` Ma non è soltanto una questione di armi. In Svizzera, per il servizio militare a ogni maschio adulto viene consegnato un fucile che può tenere in casa. In rapporto al numero di abitanti la Svizzera detiene il record mondiale della diffusione delle armi da fuoco, eppure è uno dei paesi più tranquilli del pianeta. ` In altre parole, non sono le armi a causare la violenza. Ciò detto, è pur vero che nel sistema statunitense chi delinque può procurarsi armi con troppa facilità e poiché una pistola - diversamente da un sacchetto di cocaina, o un’autovettura, o un paio di collant - dura virtualmente per sempre, anche ponendo un freno alla produzione resterebbe pur sempre il problema delle armi già in circolazione, che sono un’infinità. Fatte tutte queste precisazioni, passiamo ora a esaminare alcune delle diverse iniziative prese in anni recenti in materia di armi da fuoco, così da verificare il legame tra diffusione delle armi e criirìinalìtà negli anni Novanta. Tra le varie normative varate sul porto d’armi la più celebre è la legge Brady del 1993, che prescrive l’esibizione della fedina penale e un periodo di attesa prima di poter procedere all’acquisto di un’arina.1 Una soluzione che avrà forse sedotto i politici, ma che per un economista non ha molto senso. Perché? Ma per il semplice fatto che non serve a nulla regolamentare il mercato ufficiale quando, per quello stesso prodotto, esiste un fiorente mercato nero. Se procurarsi una pistola è così facile e così a buon mercato, perché mai il delinquente dovrebbe sentirsi spinto a presentare regolare domanda presso il rivenditore del proprio quartiere e aspettare pure una settimana? Per unanime riconoscimento, la legge Brady non è servita minimamente a far calare il tasso di criminalità. Uno studio condotto nelle carceri ha dimostrato come, anche prima di quella legge, solo un quinto dei criminali avesse acquistato armi presso un rivenditore autorizzato.` Ma anche altri tentativi di disciplinare il possesso di armi sul piano locale si sono rivelati fallimentari. Washington e Chicago introdussero severe limitazioni ben prima che iniziasse il calo della criminalità in tutto il paese negli anni Novanta, eppure proprio in quelle due città la diminuzione della violenza è stata più lenta. Un deterrente che ha dato prova di una moderata efficacia è l’inasprimento della pena per chiunque sia trovato in possesso abusivo di armi. Ma molto ancora resta da fare. Non che sia uno scenario plausibile, però se per assurdo venisse comminata - ed eseguita - la pena capitale a chiunque fosse beccato con addosso un’arma non denunciata, i crimini a mano armata crollerebbero certamente. Un’altra trovata degli anni Novanta - molto popolare nei notiziari della sera - è stata la rottamazione. Rimarranno celebri quelle sequenze: un sinistro mucchio di pistole, fucili e ini tragliette guardato a vista dal sindaco, dal capo della polizia e da una schiera di pacifisti. Un quadretto ideale per una bella foto di gruppo, ma nulla più. t il concetto stesso di rottamazione delle armi che non sta in piedi. Le armi rottamate sono spesso, per l’appunto, dei rottami. Il contributo per la rottamazione - tra i 50 e i 100 dollari, anche se in California qualcuno ha avuto la bella pensata di sostituirlo con tre ore di psicoterapia gratiS21 _~ poi, risulta ridicolo come incentivo per chiunque si sia messo in testa di delinquere. Per giunta, il numero di armi rottamate impallidisce davanti ai quantitativi di anni nuove immesse sul mercato. Dato il numero di pistole esistenti negli USA e il numero di omicidi commessi all’anno, la probabilità che una pistola sia impiegata per uccidere è di 1 a 10.000. Ogni rottamazione raccoglie a stento un migliaio di pistole, come dire che ogni rottamazione serve a sventare forse un decimo di omicidio. Un po’ poco per avere sulla criminalità un impatto degno di nota." Ma c’è anche chi sostiene invece la tesi opposta: occorrono più armi, ma nelle mani giuste (ossia in mano alla ragazza di cui sopra, e non al rapinatore). Il principale fautore di questa tesi è l’economista John R. Lott Jr., che nell’opera dal significativo titolo More Guns, Less Crime sostiene che i reati violenti sono calati proprio nelle aree geografiche in cui agli onesti cittadini è stato concesso di portare su di sé un’arma da fuoco purché non in vista." La teoria di Lott può risultare sconcertante, ma ha un fondamento. Se il delinquente sa che la potenziale vittima potrebbe essere armata, questa consapevolezza avrà un potere deterrente. 1 proibizionisti bollano Lott come ideologo della pallottola, trasformandolo nella classica pietra dello scandalo. Va detto che anche Lott ci ha messo del suo, inventandosi uno pseudonimo, "Mary Rosh", con il quale interveniva a difesa delle proprie teorie nei dibattiti on line.11 La Rosh, che si presentava come una ex studentessa di Lott, esaltava le doti in tellettuali del maestro, il suo carisma, la sua obiettività. "Devo proprio dire che è stato uno dei migliori docenti che abbia mai avuto", scriveva. "La sua ideologia di destra non è mai trapelata nelle lezioni... C’era un gruppo di studenti che voleva frequentare ogni suo corso. Alla fine è stato Lott stesso a doverci ricordare che, nel nostro interesse, era consigliabile frequentare anche i corsi di altri docenti, così da beneficiare di altri metodi didattici." Poi iniziò a circolare l’infamante accusa che Lott si fosse inventato i dati a sostegno dell’equazione "più armi uguale meno crimine". Ma a prescindere dall’autenticità o meno di quei dati, l’ipotesi di Lott, pur suggestiva, non appare veritiera. Quando altri studiosi hanno tentato di replicare i suoi stessi risultati, hanno concluso invece che il porto d’armi generalizzato non fa calare la criminalità.’
• Passiamo ora a un’altra spiegazione spesso invocata a motivare il ridimensionarsi della criminalità: lo scoppio della bolla del crack.11 La dipendenza provocata da questa droga è così forte che, in men che non si dica, si era già creato un fiorente mercato. E pur vero che a ricavarci soldi erano soltanto i capi delle gang, ma ciò rendeva i peones ancor più determinati ad avanzare, anche a costo di far fuori i rivali persino all’intemo di una stessa banda. Nelle strade, i punti di spaccio più redditizi venivano contesi a suon di sparatorie. La tipologia di omicidio più frequente (in alcuni casi plurimo) nel mondo del crack era quello tra spacciatori e non, come si tende a credere, quello commesso da un drogato in crisi d’astinenza contro un inerme negoziante per un pugno di dollari. Ne scaturì così un brusco incremento dei reati violenti. Secondo una ricerca, il 25 per cento di tutti gli omicidi commessi a New York nel 1988 risultavano legati al crack.11 La violenza riconducibile a questo stupefacente prese a diminuire verso il 1991 e ciò ha spinto molti a ritenere che il crack sia uscito di scena. Ma non è stato così. Fumare crack resta ben più popolare di quanto non si creda. Circa il 5 per cento di tutti gli arresti compiuti negli USA riguarda tuttora la cocaina, a fronte del 6 per cento toccato al crack quando il fenomeno giunse all’apice. Né risultano in calo le visite al pronto soccorso da parte di chi fa uso di questa sostanza. Ciò che invece è sparito sono i succulenti profitti della vendita di crack. 1 prezzi della cocaina, già in calo da anni, con la crescente popolarità del crack non fecero altro che scendere, gli spacciatori iniziarono a farsi concorrenza a suon di sconti e i margini si abbassarono. Lo scoppio della bolla del crack fu non meno spettacolare di quella dei titoli tecnologici: in altre parole, la prima generazione di spacciatori è paragonabile a chi ha guadagnato milioni con i titoli Microsoft; la seconda, invece, a chi si è bruciato con i fuochi di paglia delle varie dotcom (aziende che operano in Internet). Mentre i veterani dello spaccio finivano ammazzati o in galera, gli ultimi arrivati iniziarono a dirsi che, dati i magri proventi in gioco, non valeva la pena di fare la stessa fine. Il campionato aveva perso smalto. Non aveva senso uccidere per contendersi il territorio, e men che meno farsi uccidere. E la violenza prese a calare. Tra il 1991 e il 2001, il tasso di omicidi tra i giovani di colore -certo sovrastimati come numero tra gli spacciatori di crack - crollò del 48 per cento, a fronte di un 30 per cento nel caso degli spacciatori di colore ma più anziani, oppure bianchi. Un ulteriore fattore che spiega quel calo, anche se secondario, consiste nel fatto che, tra spacciatori, anziché uccidersi si iniziò a spararsi nei glutei (era ritenuto uno sfregio, un insulto più umiliante dell’assassinio, e comunque punito meno severamente). Nel complesso, al crollo del mercato del crack è riconducibile il 15 per cento del calo della criminalità registrato negli anni Novanta. Non è poco, ma si tenga presente che, negli anni Ottanta, aveva invece concorso all’aumento del crimine in Proporzioni ben maggiori. In altre parole, l’effetto finale del crack in termini di reati violenti si fa sentire ancora oggi, per non parlare delle tragedie di cui è tuttora la causa.
• Le ultime due spiegazioni addotte riguardano due tendenze demografiche. La prima è citata abbondantemente dagli organi di informazione: l’invecchiamento della popolazione.` Sino allo spettacolare ridimensionamento del crimine, questa teoria veniva pressoché ignorata. Anzi, la scuola di pensiero del "bagno di sangue" prendeva spunto da una tesi del tutto opposta: che l’aumentare della popolazione in età adolescente avrebbe prodotto un vivaio di superpredatori, con conseguenze disastrose per il paese nel suo insieme. "Poco oltre l’orizzonte si addensano nere nubi che il vento ci farà ben presto piombare addosso", scriveva nel 1995 James Q. Wilson. "La popolazione smetterà di invecchiare... preparatevi" .30 Ma nel complesso la quota di popolazione in età adolescente non stava affatto crescendo. Criminologi come Wilson o James Alan Fox avevano grossolanamente frainteso la lettura dei dati demografici. Negli anni Novanta, il vero incremento fu quello della fascia d’età più anziana. Uno scenario inquietante dal punto di vista di sanità e pensioni, ma non certo sotto il profilo dell’ordine pubblico. Non sorprenderà nessuno apprendere che gli anziani non sono molto propensi al crimine; in media, un sessantaquattrenne ha 50 volte meno chance di finire agli arresti rispetto a un teenager. t proprio questa considerazione a rendere plausibile la spiegazione che chiama in causa l’invecchiamento della popolazione: poiché, con l’età, le persone tendono a calmarsi, più anziani significherebbe necesSariamente meno reati. Eppure a una più attenta analisi dei dati si conclude che, nel calo del crimine registrato negli anni Novanta, il complessivo incanutimento degli USA non ha avuto praticamente alcun ruolo. Le mutazioni demografiche sono un processo troppo lento e troppo tenue - in altre parole, non si passa da giovinastri scalmanati a pacati signori in pantofole nel volgere di pochi anni - per giustificare un calo tanto brusco nei reati commessi. A ridurre la criminalità in modo così spettacolare è stato però un altro fattore demografico, non previsto anche se insorto dopo una lunga gestazione.
• Si ripensi alla Romania del 1966. Improvvisamente, e senza alcun preavviso, il regime mise fuori legge l’aborto. 1 bambini nati sulla scia di quella decisione avevano molte più probabilità di finire nelle maglie del crimine. Perché?` Si tratta di una tendenza riscontrata costantemente in numerosi studi condotti in altri Stati dell’Europa dell’Est e della Scandinavia tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta?’ In molti di questi casi, l’aborto non era stato messo completamente al bando, ma doveva essere autorizzato da un magistrato. Quelle ricerche giungevano alla conclusione che, in caso di rifiuto, le donne spesso concepivano un sentimento di rivalsa nei confronti del figlio, finendo per non garantirgli un clima famigliare adeguato. A prescindere dal reddito, dall’età, dal livello d’istruzione e dallo stato di salute della madre, i ricercatori giungevano alla conclusione che i nati in quelle condizioni avessero maggiori probabilità di divenire dei delinquenti. Ma negli Stati Uniti l’aborto ha seguito vicende diverse rispetto all’Europa. Nei primi decenni di vita del paese, l’interruzione di gravidanza era consentita fino ai primi movimenti percettibili del feto nel ventre della madre, solitamente tra la sedicesima e la diciottesima settimana. Nel 1828, lo stato di New York fu il primo a sottoporre a restrizioni l’aborto volontario. Nel 1900 era orinai fuori legge in tutto il paese. Nel cor so del Novecento, l’aborto era spesso pericoloso e solitamente costoso, quindi erano poche le donne povere che lo praticavano e che avevano comunque accesso alla contraccezione. In altre parole, nascevano più bambini. Alla fine degli anni Sessanta, diversi Stati degli USA iniziarono a consentire l’interruzione di gravidanza in circostanze particolari: violenza sessuale, incesto o rischio per la vita della gestante. Nel 1970, erano orinai cinque gli Stati in cui l’aborto era stato completamente legalizzato e reso accessibile a e lunque: New Yor , a i ornia, Washington, Alaska e Hawaii. Il 22 gennaio del 1973 esso divenne improvvisamente legale in tutto il paese con la sentenza emessa dalla Corte Suprema nella causa Roe contro Wade. La motivazione della sentenza, redatta dal giudice Harry Blackmun, si soffermava proprio sulla difficile situazione della potenziale madre: La penalizzazione che lo Stato imporrebbe a una gestante negandole il diritto di scelta è evidente... La maternità o un ulteriore figlio possono costringere la donna a una vita insostenibile e a un futuro incerto, con probabile danno anche sul piano psichico. La cura di un bambino può pregiudicare la salute fisica e mentale della madre. Va inoltre tenuto presente il grave disagio, per tutti i diretti interessati, di una gravidanza non voluta, oltre al problema di far venire al mondo un bambino in una famiglia già in partenza incapace, sul piano psicologico e materiale, di prendersene cura." La Corte Suprema dava così voce a ciò che, in Scandinavia come in Romania, le madri sapevano già da lungo tempo: se una donna non vuole un figlio, spesso ha le sue buone ragioni. Magari non è sposata, o il suo matrimonio non funziona. Forse si ritiene troppo povera per allevare un figlio. Forse trova che la sua esistenza sia troppo precaria o troppo infelice, o che l’a buso di alcolici o stupefacenti danneggerà il nascituro. Magari si reputa troppo giovane, o non ancora sufficientemente istruita per essere una buona madre. Per mille svariate ragioni, una donna può ritenere di non essere in grado di garantire al figlio che porta in grembo un ambiente che gli permetta di crescere sano e felice. Nell’anno che fece seguito alla sentenza Roe contro Wade, negli USA fecero ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) circa 750.000 donne (pari a un aborto ogni quattro nascite). Nel 1980, il numero delle IVG aveva toccato gli 1,6 milioni all’anno (pari a un aborto ogni 2,25 nascite), e a quel punto si stabilizzò. In un paese di 225 milioni di abitanti, 1 milione e seicentomila aborti possono non sembrare molti, come dire uno ogni 140 abitanti; a titolo di raffronto, quando dopo la morte di Ceausescu venne nuovamente legalizzata l’IVG, in Romania si registrava un aborto ogni 22 abitanti. Eppure, quel dato significava pur sempre 1 milione e seicentomila non nati ogni anno. Prima di quella sentenza, a potersi permettere un aborto clandestino in condizioni sicure erano prevalentemente le donne della classe medio-alta. Ora, però, anziché dover ricorrere a un illecito sborsando circa 500 dollari, chiunque poteva abortire con meno di 100 dollari. Che tipologia di donna avrebbe più probabilmente fatto uso di questo nuovo diritto sancito dalla Corte Suprema? Molto spesso si trattava di donne nubili, o adolescenti, o povere, quando non le tre cose insieme. Quale futuro si prospettava per i loro 14 figli? Stando a uno studio~ i bambini mai nati nei primi anni che seguirono alla legalizzazione dell’aborto avrebbero avuto il 50 per cento di probabilità in più di crescere al di sotto della soglia di povertà; e il 60 per cento di probabilità in più di crescere con un solo genitore. Sono proprio questi i due fattori - povertà nell’infanzia e famiglia monoparentale - che, sul piano statisti co, più contribuiscono a spingere un giovane nelle maglie del crimine.11 Crescere con un solo genitore raddoppia la propensione a delinquere, così come essere figli di una ragazza inadre?’ Secondo un’altra ricerca, il fattore deterininante al riguardo è invece rappresentato dalla bassa scolarità della madre.` In altre parole, proprio i fattori che spingevano milioni di donne americane ad abortire parevano pronosticare che, comunque, se i loro figli fossero nati avrebbero avuto un’esistenza infelice e probabilmente criminosa. La legalizzazione dell’IVG ebbe, negli USA, un’infinità di conseguenze tra le più disparate. L’infanticidio, per esempio, registrò un calo drastico,11 così come le nozze riparatrici o il numero di bimbi dati in adozione, il che spiega a sua volta il boom delle adozioni di bambini stranieri. Il numero dei concepiti salì del 30 per cento, ma le nascite registrarono ciò nonostante un calo del 6 per cento, a indicare che molte donne, in modo cinico e drastico, ricorrevano all’aborto come metodo anticoncezionale a posteriori. Ma l’effetto più spettacolare della legalizzazione dell’aborto, anche se si manifestò con evidenza solo dopo qualche anno, fu l’impatto che essa ebbe sulla criminalità. Nei primi anni Novanta, proprio mentre la generazione immediatamente successiva alla sentenza Roe contro Wade si avvicinava al vent’anni - sono solitamente quelli gli anni in cui un giovane fa il proprio debutto nel mondo della delinquenza - il tasso di criminalità iniziò a calare. A questa generazione era infatti venuto meno l’apporto dei soggetti che, con maggiori probabilità, sarebbero andati a ingrossare i ranghi del crimine. A mano a mano che divenne adulta la generazione privata di quei bambini mai nati, il tasso di criminalità continuò a diminuire. La legalizzazione dell’aborto portò a meno esclusione sociale; l’esclusione comporta un aumento del crimine; la legalizzazione dell’IVG ha pertanto significato meno delinquenti. Questa teoria avrebbe scatenato un pandemonio di reazioni, dall’incredulità all’indignazione, e una serie infinita di obiezioni, da quelle di ordine pratico a quelle di natura etica. La più immediata è anche la più semplice: ma sarà proprio così? E se il legame tra aborto e crimine fosse di mera correlazione, anziché un nesso causale? E più rassicurante dare credito alla versione difesa dagli organi di stampa: che la delinquenza sia calata grazie alle rinnovate strategie di polizia, alle intelligenti normative sul controllo delle armi e al fiorire dell’economia. Siamo sempre più avvezzi a stabilire nessi causali tra elementi evidenti e tangibili, non tra fenomeni distanti o scomodi. E siamo sempre pronti a dar credito a legami di causa ed effetto tra fatti immediatamente riconducibili l’uno all’altro; Tizio è stato investito da un’auto, è stato trasportato velocemente in ospedale ed è deceduto. A uccidere Tizio è stato quell’incidente. Spesso questo genere di ricostruzioni risulta corretto, ma nell’analizzare un legame tra causa ed effetto un simile metodo nasconde alcune insidie. Oggi siamo pronti a ridacchiare di antiche culture che sposavano tesi assurde, come i guerrieri convinti che a garantire la vittoria sul campo di battaglia fosse lo stupro di una vergine. Ma anche noi siamo pronti a sposare tesi ridicole, specie quando a propinarcele è un esperto forse neppure del tutto spassionato. Come stabilire, quindi, se tra aborto e crimine vi sia un nesso causale o non piuttosto una correlazione? Per verificare gli effetti dell’aborto sul tasso di criminalità, una strada possibile consisterebbe nell’esaminare i dati relativi alla delinquenza nei cinque Stati degli USA che avevano già legalizzato l’IVG prima che la Corte Suprema estendesse la legalizzazione all’intero territorio nazionale. Negli Stati di New York, California, Washington, Alaska e Hawaii era possibile praticare legalmente l’aborto già da due anni e, in questi stessi Stati, il tasso di criminalità iniziò a calare prima che nel resto degli USA. Tra il 1988 e il 1994, in quei cinque Stati i reati violenti calarono a un ritmo più rapido del 13 per cento rispetto agli altri della federazione; tra il 1994 e il 1997, il tasso di omicidi segnò una calo più veloce del 23 per cento che nel resto del paese. E se fosse stata una variazione casuale? Quali altri elementi verificare, a riprova di un nesso causale tra aborto e tasso di criminalità? Per esempio, il tasso di aborti e l’incidenza dei reati in ogni singolo Stato. Si constaterà che gli Stati con i più alti indici di aborto negli anni Settanta registreranno negli anni Novanta i cali più accentuati nel numero di reati, e viceversa. Si noti che la correlazione sussiste anche depurandola di una serie di fattori suscettibili di incidere sul tasso di criminalità: numero di soggetti già detenuti, numero di agenti di polizia, situazione economica dello Stato in questione. Dal 1985, gli Stati con il tasso di aborto più elevato hanno registrato un calo della criminalità del 30 per cento rispetto a quelli con tassi di aborto più bassi. La città di New York evidenziava tassi di aborto elevati e si trova in uno degli Stati che già consentivano l’IVG prima della sentenza della Corte Suprema: due fattori, questi, che contrastano con la tesi di chi imputerebbe alle nuove strategie lo spettacolare crollo della delinquenza registrato nella Grande Mela. Inoltre, non si evidenzia alcun nesso tra tasso di aborti e indici di delinquenza in nessuno Stato prima della fine degli anni Ottanta, il periodo in cui iniziava ad affacciarsi al mondo della delinquenza la prima generazione nata dopo la legalizzazione dell’IVG; un’ulteriore indicazione che si tratti di una dinamica innescata proprio dalla sentenza Roe contro Wade. Ma vi sono altre correlazioni, in positivo e in negativo, che ribadiscono l’esistenza di un nesso tra aborto e crimine. Per esempio, negli Stati con la maggiore incidenza delle IVG il calo della criminalità si è concentrato proprio nella fascia d’età corrispondente ai nati dopo la legalizzazione, e non ha riguardato altrettanto i criminali più adulti. Si aggiunga poi che anche in Australia e Canada sono stati condotti studi analoghi. giungendo alle stesse conclusioni." Nella generazione postRoe non soltanto mancano all’appello migliaia di giovani criminali maschi, ma anche migliaia di ragazze madri: molte delle bambine non nate, infatti, con ogni probabilità avrebbero seguito a loro volta le orme della madre.’ Scoprire che uno dei fattori che più hanno concorso a far calare la delinquenza negli USA sia l’aborto disturba profondamente. Si tratta di tesi, più che darwiniste, degne di Jonathan Swift, che fanno andare la mente al paradosso di G.K. Chesterton: se non ci sono abbastanza cappelli, il problema non si risolve con qualche decapitazione. Per utilizzare la terminologia degli economisti, il crollo della delinquenza è stato un "beneficio collaterale" della legalizzazione dell’aborto. Non occorre chiamare in causa valori morali o religiosi per trovare agghiacciante che una tragedia privata divenga un beneficio per la collettività. Sono numerosissimi coloro che, a prescindere da ogni altra considerazione, ritengono anche l’aborto un crimine. Un giurista ha paragonato la legalizzazione dell’IVG alla schiavitù (perché causa anch’essa la morte nell’indifferenza generale)` e all’Olocausto (dal momento che il numero di aborti praticati negli USA dopo la sentenza Roe contro Wade, circa 37 milioni, il dato è del 2004, sovrasta persino i 6 milioni di ebrei massacrati in Europa). Indipendentemente dalle convinzioni personali di ognuno, l’aborto resta un tema molto difficile da trattare. Se ne rese ben conto Anthony V Bouza, ex dirigente di polizia prima nel Bronx e quindi a Minneapolis, quando corse alla carica di governatore del Minnesota, nel 1994. Qualche anno prima, aveva scritto un libro nel quale definiva l’aborto come: "Verosimilmente l’unico metodo efficace di prevenzione del crimine adottato in questo paese dalla fine degli anni Sessanta".` Quando questa sua tesi venne divulgata in campagna elettorale, Bouza accusò un improvviso calo nei sondaggi. E infatti perse. Comunque, lasciando da parte per un istante ogni opinione personale in materia di aborto, resta l’interrogativo: che cosa ce ne facciamo dell’equazione "più aborto uguale meno crimine"? t possibile quantificare un fenomeno così complesso, tanto per cominciare?
• Ma si sa, gli economisti amano tradurre in cifre i fenomeni complessi. Si pensi all’impegno messo in campo per salvare l’allocco maculato americano dall’estinzione. Stando a uno studio, per salvaguardare circa cinquemila allocchi, quelli che gli economisti chiamano "costi impliciti" (il mancato introito per l’industria forestale e altre attività) ammonterebbe a 46 miliardi di dollari, pari a 9 milioni di dollari ad allocco .41 Dopo il disastro della Exxon Valdez nel 1989, un altro studio economico quantificò la maggior spesa che ogni famiglia statunitense sarebbe stata disposta a s’ostenere per scongiurare il ripetersi di una simile catastrofe: 31 dollari.44 Gli economisti sono abituati a quantificare un valore persino per le singole parti del corpo umano. Ecco come lo Stato del Connecticut risarcisce gli infortuni sul lavoro a seconda della parte offesa:41 Parte dei corpo perdutaindennizzo o resa invalida(settimane di retribuzione) Mignolo36 Anulare29 Dito medio21 Dito indice17 Pollice (mano principale)63 Pollice (altra mano)54 segue Pàrte dei corpo perdutaIndennizzo o resa invalida(settimane di retribuzione) Mano (principale)168 Mano (altra)155 Braccio (principale)208 Braccio (altro)194 Alluce28 Altre dita dei piede9 Piede125 Naso35 Occhio157 Rene117 Fegato347 Pancreas416 Cuore520 Seno35 Ovaia35 Testicolo35 Pene35-104 Vagina35-104
• Ora, a titolo puramente teorico, poniamoci un interrogativo odioso: che valore economico attribuire al feto rispetto al neonato? Se vi fosse richiesta la salomonica decisione di sacrificare la vita di un neonato per salvare un numero indeterminato di feti, a partire da quale numero sareste disposti a prendere una decisione del genere? Si tratta di un mero esercizio intellettuale, per il quale non esiste una risposta ma che può servire a chiarire l’impatto dell’aborto sulla criminalità. Per chi si ritiene a favore della vita del nascituro o della libertà di scelta della donna, il calcolo è presto fatto. 1 primi, nella convinzione che la vita abbia inizio all’atto stesso del concepimento, riterranno che tra il valore del feto e il valore del neonato vi sia un rapporto di 1: 1. 1 secondi, nella convinzione che il diritto della donna di abortire prevalga su ogni al tro fattore, riterranno che non vi è numero di feti tale da essere paragonabile al valore anche di un solo neonato. Mettiamoci ora nei panni di una terza persona (se la vostra posizione coincide appieno con una qualsiasi delle due sopra menzionate, probabilmente l’esercizio intellettuale che segue urterà la vostra sensibilità: in tal caso, passate direttamente al capitolo successivo). Una terza persona che non ritiene il valore del feto paragonabile a quello di un bambino secondo un rapporto di 1: 1, ma che non ritiene neppure che il feto non abbia alcun valore relativo. Supponiamo, sempre in via del tutto teorica e come esercizio intellettuale, che costui sia costretto ad attribuire al feto un valore relativo, e che lo fissi a 100 feti per ogni nato. Ogni anno, negli USA vengono praticati circa 1 milione e mezzo di aborti. Per chi ritenesse che 100 feti equivalgano a un nato, quel milione e mezzo di aborti equivale alla perdita di 15.000 vite umane. Casualmente, 15.000 è anche il numero delle vittime di ornicidi ogni anno negli Stati Uniti. Molto più alto degli ornicidi eliminati ogni anno dalla legalizzazione dell’aborto. Quindi, anche per chi ritenesse che il feto valga solo un centesimo di essere umano, l’equazione "più aborto uguale meno crimine" si rivela, sul piano economico, paurosamente inefficiente. Insomma, la conclusione che si può trarre dal legame tra legalizzazione dell’IVG e riduzione della delinquenza è questa: quando uno Stato riconosce alla donna il diritto di scegliere liberamente se avere un figlio oppure no, solitamente la futura madre si chiede molto seriamente se sarà in grado di assicurare al nascituro una vita decente. Se ritiene di no, spesso opta per l’aborto.