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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

Epifania del Magnifico

I re Magi ci venivano volentieri, a Firenze. La città era bella e ricca. Belle le chiese e i palazzi e belle le donne. Tanto eleganti e ben vestite, che sembravano uscite da un presepe o da un corteo d’Oriente. «Le mi parevano d’ogni natione a tanta varietà di aconciature di testa, quale parevano angioli, quali francese, quale fiaminghe, quale inglese e quale inde, arabe e caldee, che so io.» Sono le parole attonite di Zaccaria Saggi, ambasciatore del marchese di Mantova, che non sapeva darsi pace davanti a tanto ben di Dio: «io assomiglio questa entrata in Fiorenza al paradiso veramente». Quale posto migliore per una cavalcata di sovrani esotici, pieni di regali? Dalla fine del Trecento, s’era presa a Firenze l’abitudine di celebrare l’Epifania con un suntuoso corteo di Magi. Abiti sgargianti, doni, carri che percorrevano strade e piazze, per devozione, certo, ma anche per far festa, starsene allegri e sfoggiare decoro e opulenza. Alla guida delle sfilate, e larghi di doni, v’erano i Medici, con le loro ricchezze da favola, la banca prospera, e il potere, discreto, temuto, riverito. Così, quando il piccolo Lorenzo di Piero di Cosimo de’ Medici venne al mondo, il primo giorno del mese di gennaio dell’anno 1449, fu naturale pensare ai Magi. Dopo le due femmine, Bianca e Nannina, Lorenzo era l’erede maschio tanto sospirato. Brava Lucrezia, che l’aveva partorito, contento Piero, il padre, che pur avrebbe ereditato un giorno la responsabilità della famiglia, o meglio del clan dei Medici. E felice il nonno, Cosimo, il «gran mercante», come lo chiamavano, astuto, sottile, generoso con gli amici e con i protetti, e, all’occorrenza, impietoso con i nemici. Da una quindicina d’anni, da quando c’aveva quasi rimesso la pelle a causa delle rivalità cittadine, Cosimo controllava a Firenze morte, vita e miracoli. Col guanto di velluto, senza dar troppo nell’occhio – quella fiorentina era pur sempre una repubblica, e i suoi cittadini andavano fieri della loro libertà. Che poi, tra il dirsi liberi e l’esserlo per davvero ci fossero di mezzo i Medici, e in particolare quella volpe di Cosimo, era cosa risaputa, in riva all’Arno, per tutta Italia e anche al di là delle Alpi. Cosimo era anzi più signore fuori Firenze che in casa, e da signore effettivo e domino della politica estera lo trattavano le potenze della penisola e i re oltremontani. Del nipotino, di questo Lorenzino che frignava nella sua culla nell’inverno di metà Quattrocento, Cosimo e tutti i suoi avevano gran bisogno. La roba, gli amici, la reputazione, tutto quanto s’era raccolto nel tempo andava pur trasmesso, passato da una generazione all’altra. Le fortune della famiglia poggiavano innanzitutto sui maschi, e dopo Cosimo e i suoi due figlioli, Piero e Giovanni, sarebbe toccato a Lorenzo, e dopo di lui ai figli suoi, difendere e far ancor più grande la casata. La storia voleva decidere altrimenti, e dir la sua in questi sogni di fortune medicee? Allora non lo si poteva sapere né prevedere, e per il momento non riguarda nemmeno noi. Lasciamo che si festeggi, e si pensi a battezzare il neonato. Era costume a Firenze portare i piccoli al fonte battesimale entro un paio di giorni dalla nascita. Per Lorenzo, però, si fece un’eccezione, la prima di quella lunga serie di deroghe che avrebbe costellato la sua vita, nel bene e nel male. Valeva la pena di aspettare fino al sei gennaio, quando sarebbero arrivati i Magi, e si sarebbe mostrato a tutti che quell’ultimo venuto era destinato a grandi cose. Non era forse stato san Giovanni, patrono della città, a battezzare Gesù? I Magi vennero, per metafora e per davvero, e Piero radunò una combriccola di «compari», i padrini al battesimo, di tutto rispetto. V’era l’arcivescovo di Firenze, ufficiali del reggimento cittadino, quelli scorsi e gli attuali. Persino Federico da Montefeltro, il superbo signore d’Urbino, aveva mandato un proprio uomo a rappresentarlo. Anche per lui, schizzinoso com’era in fatto di nobiltà, accompagnare al battesimo l’ultimo rampollo dei Medici non era onore da disdegnare. Quando, qualche anno dopo, fu completato il grande palazzo di via Larga, con le sue forme severe, la mole imponente e il fasto principesco, Benozzo Gozzoli ebbe l’incarico di dipingere, nella cappella privata, proprio una cavalcata di Magi, vivida di colori e carica d’ottimismo. Tra la folla si distinguono i ritratti di Cosimo, di Piero, di Giovanni e non manca neppure un Lorenzo già ragazzino. È di lato, zazzeruto e dall’occhio furbo, e diresti che se ne stia quieto un po’ a stento, e ancora per poco. Quando Benozzo lavorava d’oro, di lapislazzuli e di lacca color rubino, Lorenzo aveva dieci anni. Non più bambinetto non ancora adolescente, libero di scherzare e di fare già il saputello, esaltato dalle speranze della famiglia, che si posavano su di lui, l’avvolgevano, lo proteggevano. Credete però che un ritratto solo potesse bastare, al nostro Magnifico in erba? La voce del popolo ha visto Lorenzo, più grandicello, anzi già quasi uomo, nei panni del re Gaspare, che s’avanza spavaldo al centro dell’affresco. Un gran bel Mago, non c’è che dire (bello, Lorenzo, non fu mai), vestito a ricami d’oro su di un cavallo bianco, elegante, sicuro di sé. Annotatevi queste due immagini, una verosimile e l’altra attribuita per sentito dire, così cominciate a prender le misure del personaggio e del suo destino. Lorenzo re Mago, Lorenzo spettatore di se stesso, Lorenzo Gesù bambino, che porta doni e che li riceve, ai margini del dipinto, al centro, dappertutto. Prove generali d’ubiquità, come ubiquo è il mito laurenziano nel nostro Rinascimento, che senza di lui, Magnifico e magnificamente invadente, non sarebbe quel tempo iperbolico che ammiriamo tanto. La messa in scena realizzata da Benozzo a Palazzo Medici, nel 1459, e quell’altro corteo d’Epifania del 1449, con tutti i signori importanti a far scorta al fantolino, vi servano da profezia e d’avvertimento. Viste le premesse, non v’è da stupirsi che Lorenzo fosse destinato a crescere orgoglioso, ambizioso, prepotente. Si sa che i re Magi, che sono accorsi a rendergli omaggio, han le some cariche d’onori, piaceri, rancori.