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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

Austerità, la lezione della crisi

Prima, agli inizi della crisi, si parlava di exit strategy. Oggi che, in qualche modo, dalla crisi ci sentiamo ormai fuori, si parla di ritorno alla crescita, di fine della stagione dell’austerità. 
Quando si parla di austerità, tuttavia, forse non sarebbe male specificare che cosa si intende con questa parola. Nella storia d’Italia, infatti, la parola austerità è stata usata in almeno quattro accezioni diverse.
La prima risale alla fine del 1973, ai tempi delle “domeniche a piedi”. Per austerità, allora, si intendeva la limitazione dei consumi (in particolare quelli di carburante) imposta dal governo a seguito della crisi del petrolio.
La seconda risale al famoso discorso di Berlinguer del 1977 al “convegno degli intellettuali”. In quella occasione la parola austerità venne usata in tutt’altra accezione.
Non come rinuncia più o meno temporanea a livelli di consumo divenuti non più sostenibili, bensì come scelta consapevole di un modello di sviluppo alternativo, più sobrio ed equo.
La terza accezione è puramente descrittiva: si usa la parola austerità semplicemente per dire che negli anni della lunga crisi iniziata nel 2007 i cittadini di molti Paesi (fra cui l’Italia) hanno dovuto ridurre i propri consumi. Da questo punto di vista metà dei Paesi europei sono fuori dell’austerità, perché hanno recuperato gli standard di vita del 2007-2008, e metà (Italia compresa) sono tuttora dentro, perché quegli standard non li hanno ancora recuperati.
Ma l’accezione più importante del termine austerità è la quarta e ultima: con essa non si intende una riduzione più o meno temporanea e più o meno autoimposta del tenore di vita, bensì il complesso di politiche messe in atto da un governo per risanare conti pubblici andati fuori controllo. Nel 2009, l’anno peggiore della crisi, tutti gli attuali 28 Paesi dell’Unione europea erano in deficit, e nessuno di essi (eccetto la Svezia) aveva un avanzo primario positivo. Il deficit medio superava il 6%, l’avanzo primario medio era negativo per oltre 4 punti. 
È chiaro che qualcosa si doveva fare, ed è precisamente da quel picco negativo dei conti pubblici, infatti, che presero avvio le politiche di austerità dei vari Paesi, ora basate sull’aumento delle tasse, ora sulla riduzione delle spese, ora su entrambe questo tipo di misure. Da allora, con la sola eccezione della Finlandia (i cui conti sono leggermente peggiorati), tutti i Paesi europei hanno migliorato i loro conti pubblici: oggi solo 10 Paesi su 28 hanno ancora un avanzo primario negativo, e fra quelli che hanno un avanzo positivo ben 8 hanno un avanzo superiore all’1%. Fra questi Paesi “virtuosi” compare anche l’Italia, che vanta il quinto miglior avanzo primario dell’Unione Europea.
Vista da questa angolatura, la polemica sull’austerità, e sulla necessità di lasciarsi alle spalle le relative politiche “lacrime e sangue”, appare leggermente fuori tempo. Grecia a parte, nella maggior parte dei Paesi europei le politiche di austerità sono alle spalle per il semplice motivo che i conti sono tornati relativamente in ordine. Il problema, dunque, non è di abbandonare politiche di austerità a favore di politiche per la crescita, bensì di capire come mai, al termine di questo processo di risanamento dei conti pubblici che, sia pure in misura diversa, ha coinvolto tutti i Paesi (eccetto la Finlandia), alcuni di essi siano tornati a crescere e altri no.
Se vogliamo rispondere a questo interrogativo, tuttavia, il concetto di austerità ci serve solo fino a un certo punto. È vero, i Paesi che più hanno risanato i loro conti pubblici crescono a un ritmo un po’ superiore (circa 1 punto) rispetto agli altri. Ma la incisività del risanamento, ovvero “quanto” risanamento è stato fatto, non basta certo a rendere conto della differenza fra il gruppo di Paesi con crescita media prossima a zero (fra cui Italia, Spagna, Portogallo, ma anche Finlandia, Olanda, Danimarca) e il gruppo di Paesi con crescita media prossima o superiore al 3% (fra cui Irlanda, Svezia, Lussemburgo, Polonia). 
Se vogliamo rendere conto di queste differenze non è alla quantità di austerità che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, ma alla qualità delle politiche di austerità, ovvero al mix fra minori spese e maggiori entrate di cui è necessariamente fatta qualsiasi politica di risanamento dei conti pubblici. Perché, anche se l’effetto sul saldo dei conti pubblici è il medesimo, è molto diverso fare austerità con i tagli di spesa o con gli inasprimenti fiscali. E sotto questo profilo, quello della composizione delle politiche di austerità, i Paesi europei si sono mossi in modi alquanto difformi. 
Un primo gruppo di 7 Paesi (fra cui Svezia, Regno Unito e Irlanda) ha privilegiato nettamente la riduzione delle spese: il loro tasso di crescita medio, fra il 2009 e il 2015, è stato pari al 3,3%. 
Un secondo gruppo di 6 Paesi (fra cui Germania, Austria, Polonia) ha attuato un mix relativamente bilanciato fra riduzioni di spesa e aumento delle tasse: il suo tasso di crescita medio è stato pari all’1,6%, ossia circa la metà di quello dei Paesi che hanno puntato sul contenimento della spesa pubblica.
Un terzo gruppo, costituito dai restanti 15 Paesi (fra cui Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, ma anche Belgio e Francia) ha privilegiato nettamente l’aumento delle imposte: il suo tasso di crescita medio è stato dello 0,5%, ossia quasi 3 punti sotto quello del gruppo di Paesi che hanno attuato la politica opposta.
Così, arrivati quasi all’uscita del tunnel della crisi, il problema di fondo dell’Italia, quello da cui molto di tutto il resto dipende, non pare cambiato in modo sostanziale rispetto a 10 anni fa. Se non cresciamo non è perché abbiamo attuato troppa austerità né perché ne abbiamo attuata troppo poca: il problema è che, negli anni della crisi, abbiamo sbagliato il mix, puntando troppo poco sulle riduzioni di spesa e troppo sugli aumenti di entrate. 
D’altro canto, proprio il fatto che l’interposizione pubblica (ossia la somma di entrate e uscite della Pubblica Amministrazione), ormai prossima al 100% del Pil, resti tra le più alte d’Europa, suggerisce chiaramente che i margini di miglioramento non mancano. Se vogliamo entrare stabilmente nel club dei Paesi che crescono, di strade non ce ne sono molte, anzi in ultima analisi ve n’è una sola: percorrere anche noi il cammino, fatto di minori tasse e minori spese, che altri hanno saputo intraprendere prima di noi.