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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

Da Firenze a Genova 
cinquant’anni di alluvioni
 senza nessun colpevole

C’è voluto mezzo secolo per ripescare Mario Maggi dalla fossa comune della storia. Era uscito da casa il 4 novembre 1966. E di lui, prima vittima mai riconosciuta dell’alluvione di Firenze, la famiglia non seppe più nulla. Per cinque giorni il corpo rimase coperto di fango e senza identità nell’obitorio di San Giovanni di Dio. Il suo nome, come molti altri, non è mai comparso nella lista ufficiale delle 35 vittime. L’Italia del boom doveva dimenticare subito la furia dell’Arno, relegarla a un castigo di madre natura. E serbare solo la memoria degli eroi, i volontari accorsi per salvare libri antichi e opere d’arte. «Molti aspetti sono stati volutamente nascosti – dice la figlia Lina Maggi – e si ricordano soltanto di angeli del fango: grandiosi, ma dei morti si è parlato troppo poco. Il mio babbo aveva 44 anni e 4 figli, di cui una disabile. Non abbiamo avuto risarcimenti e siamo cresciuti in povertà».

La verità è riaffiorata nel 2011, quando con le sorelle si è rivolta a Franco Mariani, creatore del sito «Firenze promuove». Secondo una relazione dei vigili «dimenticata», Maggi fu investito da una frana causata dall’esondazione del Mugnone, affluente dell’Arno. Era sul camion della ditta da cui si stava licenziando, all’ultimo giorno di lavoro: «Il cinquantennale sarà ricordato in pompa magna – spiega Mariani – ma ancora non sappiamo con precisione cos’accadde davvero. Quando, a meta Anni 90, divulgai su una tv locale le ricerche compiute all’Archivio di Stato, in Comune trovai solo ostilità. La polizia municipale si prese le mie carte e le restituì dopo un mese». Tra i dettagli semisconosciuti c’è l’abbozzo di un’inchiesta, avviata da due magistrati che sarebbero diventati famosi, Antonino Caponnetto e Pierluigi Vigna. Le indagini s’incardinano sull’effetto di due dighe Enel, filone che non trova sufficienti riscontri, e sul mancato allarme. Sul secondo fronte gli inquirenti vorrebbero chiedere il rinvio a giudizio del prefetto Manfredi De Bernart. Ma finisce con il procuratore generale Aldo Sica che avoca il fascicolo e non se ne fa nulla. Da quel momento Firenze è passata alla storia come la catastrofe naturale per antonomasia, sebbene in seguito si sia fatto molto per colmare i vuoti di sicurezza. «Mi viene ancora una lacrimuccia», confidò Vigna in un’intervista a fine carriera, parlando di quegli accertamenti all’improvviso stroncati.

Inchieste abortite
Dal 1966, quindi tre anni dopo il Vajont che doveva segnare un cambio di approccio nella prevenzione, sono morte in Italia oltre 1.000 persone per inondazioni e alluvioni (2 mila eventi negli ultimi 15 anni, 293 vittime e 3,5 miliardi di danni ogni anno). Nessuno ha fatto un giorno di carcere per averle causate. E allora chi paga? I parenti delle vittime non hanno quasi mai l’ossessione delle manette ai colpevoli. Ma individuare la responsabilità è l’unico modo perché certe cose non accadano di nuovo.

Maurizio Garrone aveva 12 anni il 3 novembre 1969, quando la provincia di Biella fu devastata dalla pioggia e dal torrente Strona (72 morti): «Mio padre Carlo era il sindaco di Vallemosso e lì morirono in 52. Passò un mese accampato in municipio, gli portavo il cambio della biancheria. Inchieste? Impensabile. Lui è scomparso otto anni fa e abbiamo sempre pensato che parte dello scempio derivasse dall’eccessivo avanzamento delle fabbriche sul corso del fiume. Da allora i vincoli per allargarsi sono diventati stringenti, forse non era una leggenda metropolitana…». Cercare la mano dell’uomo è sembrato a lungo sacrilego, davanti a sequenze che sapevano di soprannaturale. A Genova dopo l’ottobre 1970 (44 vittime) non ci furono indagini specifiche. Eppure il problema era chiarissimo, la portata insufficiente di due torrenti ingabbiati dalla cementificazione. Si decise di costruire scolmatori e deviatori, ma gli scavi si impantanarono in un ginepraio di sospette tangenti, sequestri e processi incompiuti. Risultato: quarant’anni dopo la città era identica, con le sue speculazioni e i lavori rimasti sulla carta, e l’acqua ha continuato a uccidere. I cantieri fondamentali, invece, sono stati aperti sei mesi fa.

I periti complici

Nel fango scavano gli eroi, non si trovano colpevoli e si perdono tante esistenze «normali». Come quella di Anna Ragnedda, che il 18 novembre 2013, invalida, è al pianterreno nella sua casa di Olbia. L’acqua invade la stanza dov’è immobilizzata a letto e muore affogata. «A giugno – spiega Mario Perticarà, l’avvocato che assiste la famiglia – era stata trasferita in una residenza per anziani durante un’esercitazione, ma poi se la sono dimenticata». E in pieno marasma non viene nemmeno convocato il Comitato operativo comunale, che dovrebbe coordinare l’emergenza. Nel processo per il fallimento delle più banali misure di prevenzione sono imputati in sei, tra loro gli ex sindaci di Olbia e Arzachena. E l’autodifesa è giocata sull’imprevedibilità delle piogge, jolly sempreverde che dilata i dibattimenti, mescolandoli ai fardelli procedurali d’un sistema a perenne rischio flop. Per dire: chi conosce il nome di Giuseppe Vignera? È un giudice alessandrino alluvionato nel novembre ‘94, quando il maltempo flagellò la Valle Tanaro e morirono in 70. L’indagine sulle inadempienze degli amministratori, per il potenziale conflitto d’interesse d’una toga, finì a Milano, chiudendosi dopo dieci anni con un nulla di fatto tra prescrizioni e assoluzioni.

Il geologo Alfonso Bellini ha seguito da consulente giudiziario otto disastri: «Fino agli albori della Protezione civile (Anni 90) ha imperato l’idea d’una natura ingestibile e matrigna. E quando si è investigato di più, i giudici hanno di fatto abdicato alla presunta superiore competenza dei periti, il cui pronunciamento è decisivo pur trattandosi di consulenti privati. Su di loro aleggia sempre l’ombra di un potenziale conflitto d’interesse. E chi lavora per le Procure viene isolato, non ottenendo più incarichi da committenti che in altre occasioni dovrebbe far condannare. Le relazioni su cui il tribunale baserà il verdetto sono infarcite di scappatoie, generando dubbi anziché certezze». Dopo la catastrofe di Stava (1985, 268 persone sepolte in Trentino da una colata di fango per il crollo d’una discarica mineraria) i parenti delle vittime dovettero cercarsi un esperto in Inghilterra, il professore Dick Chandler: nessuno, in Italia, voleva mettersi contro la Montedison.

Risarcimenti impossibili

Il 5 maggio 1998 il comprensorio di Sarno in provincia di Salerno è sommerso da 2 milioni e mezzo di metri cubi di fango, e il monte Pizzo d’Alvano si trasforma per mezza giornata in un fiume di detriti. Ci sarebbe il tempo di evacuare, prima che l’ultima ondata uccida – da sola – 70 persone (149 i morti totali). Nel 2013 l’ex sindaco Gerardo Basile è condannato a 5 anni: tre sono spazzati dall’indulto, il resto scontato con i servizi sociali. E le vittime? «Per ottenere qualcosa abbiamo pignorato i conti Bankitalia della presidenza del Consiglio, siamo stati i primi – racconta Antonio Carrella, legale dei familiari -. Un emendamento del 2015 ha quantificato il valore d’una morte in 100 mila euro, un terzo rispetto alla strage di Viareggio. E nel frattempo nessuno aveva accantonato nulla». Scendiamo fino a Soverato, provincia di Catanzaro. Egidio Vitale oggi ha ottant’anni e si paragona «alla cruce, come si dice qui per indicare l’attaccapanni, appeso e spoglio». È un capro espiatorio perfetto. Era il titolare del camping «Le Giare», disintegrato fra il 9 e il 10 settembre 2000: 13 morti nell’alluvione, perlopiù disabili su un appezzamento ricavato nel letto d’un torrente. Lo aveva comprato da un imprenditore, scoprendo poi di dover versare concessioni demaniali. «Sono stato di fatto l’unico condannato (3 anni e mezzo, qualche settimana di domiciliari ma niente carcere) dopo aver corrisposto regolari rate allo Stato. Non ho nulla, mi sono piombate addosso richieste per 22 milioni. Soldi virtuali. E ancora trovo nella posta istanze per 40 o 50 mila euro: le leggo e le metto in un cassetto».

Flamur Djala invece è un imprenditore edile originario di Tirana. Il 4 novembre 2011 (stesso giorno di Firenze, 45 anni dopo) perde la moglie, Shpresa, 29 anni, e le sue figlie Gioia e Janissa, 8 anni e 10 mesi, in una strada di Genova chiamata via Fereggiano come il torrente che le scorre accanto. Nessun amministratore si premura di chiudere traffico e scuole, Shpresa va con la bimba più piccola a prendere la sorella maggiore ed è travolta dalla piena mentre cerca rifugio in un portone. I giudici processano il sindaco di allora, Marta Vincenzi (Pd), e un gruppo di funzionari. «Ho chiesto al Comune d’essere risarcito – spiega Flamur – poiché avevano mandato il loro avvocato in tv a dire che avrebbero pagato. Mi hanno fatto rispondere da un’agenzia di mediazioni assicurative, la Sircus: “Non si ritiene vi siano allo stato le basi per una trattativa stragiudiziale. Attendiamo l’esito della consulenza tecnica d’ufficio”. Ho visto cose incivili prima e durante le udienze, ma questo nel bene e nel male è ormai il mio Paese. Ho ottenuto la cittadinanza italiana, io comunque ci credo ancora».