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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

Peter Høeg

PORDENONE APPENA SEDUTO, la prima cosa che fa Peter Høeg – cinquantanove anni, danese, autore da quindici milioni di copie che in Italia e in trenta altre nazioni tutti conoscono soprattutto per Il senso di Smilla per la neve – è togliersi le scarpe e incrociare le caviglie sotto le cosce, in una sorta di posizione del loto. La sua compostezza da yogi, però, è a tratti contraddetta da una gestualità molto latina: per sottolineare i punti a cui tiene di più, infatti, picchietta con la mano sul ginocchio. Il mio.
Siamo in una saletta della mansarda dell’Hotel Moderno di Pordenone, accanto a un tavolo trasparente e algido come i ghiacci del profondo Nord. Høeg è qui per presentare il suo ultimo romanzo, L’effetto Susan (Mondadori), solido thriller con elementi fantapolitici che racconta di una cospirazione per tenere nascoste le rivelazioni sul fosco futuro dell’Europa prodotte negli anni Settanta da un gruppo di straordinari veggenti. «Immaginare ciò che accadrà può sembrare inquietante, ma è comodo: risparmia un sacco di sorprese» mi dice lo scrittore. «Pensi al bravo Paolo Di Paolo che due ore fa era con me alla presentazione del libro: quando ho detto al pubblico “sapete cosa mi è successo ieri, proprio qui a Pordenone, in un supermarket dove mi trovavo insieme a Paolo?”, ho colto uno sguardo terrorizzato nei suoi occhi: cosa mi stavo inventando? Dove sarei andato a parare? In realtà l’ho incontrato solo oggi, cinque minuti prima della presentazione: al pubblico stavo raccontandouna menzogna». La vita imita l’arte e il rapporto degli scrittori con la verità non è mai ben definito, proprio come succede agli attori. Ma cosa è successo nel supermercato – a questo punto immaginario – di Høeg? «Mentre ero in fila alla cassa, una vecchia signora mi guarda con insistenza. Mi si avvicina e mi dice: “Mi scusi ma devo dirle una cosa: lei assomiglia in modo impressionante a mio figlio, che è mancato l’anno scorso”. Io ho risposto “Mi dispiace molto”. Lei mi ha chiesto: “Posso chiedere il tuo nome?”. “In italiano sarebbe Pietro” rispondo. “Proprio il nome di mio figlio” mi dice lei, commossa. Poi mi chiede una cosa bizzarra e romantica: prima di tornare a casa vorrebbe voltarsi un’ultima volta e dirmi: “arrivederci, Pietro!”. Potrei essere così gentile da risponderle: “Arrivederci, mamma!”. Ovviamente acconsento. Poi vado alla cassa per pagare il dentifricio che avevo preso, e mi chiedonotrecento euro. “Ma come?”, sbotto. “Sua madre ha detto che lei avrebbe pagato anche la sua spesa” risponde il cassiere». È una leggenda urbana che Høeg ha usato a mo’ di esperimento con il pubblico, per capire fino a che punto avrebbero empatizzato con la vecchietta. «In Danimarca tengo corsi di empatia per gli insegnanti di scuola» si giustifica. «Penso che l’empatia sia oggi la ricchezza umana più sottovalutata e vilipesa». Un’altra cosa che lo scrittore insegna, nella comune dove vive al riparo da occhi, flash e microfoni indiscreti, è la meditazione. «Vivo per gran parte dell’anno nel Vaekstcenteret (Centro per la crescita) di Nørre Snede: è una comunità spirituale non religiosa di cento persone. Ma questo, magari, non lo dica». Ah, già, la sua idiosincrasia per i giornalisti… «Non mi fraintenda: a me piace essere intervistato, perché è una cosa che mi ricorda l’importanza dell’umiltà. Per come la vedo io, uno scrittore deve essere grato del fatto che un giornalista gli dedichi del tempo. Se dimenticassi questo, diventerei un odioso snob. Ma devo anche proteggermi: sono un uomo di famiglia. Ho dei figli e una compagna che hanno bisogno della mia presenza. E siccome i miei libri sono un po’ dappertutto, nel mondo, c’è una pressione piuttosto costante dei giornalisti sul sapere cosa faccio. Pensi che una volta hanno persino ingaggiato un investigatore privato per scoprire dove vivevo! Devo salvare i miei cari da questa invadenza». Ma ci si può davvero difendere dalla fama? «È salutare. Nel mio caso è anche una garanzia di non mischiare il lavoro con la vita in famiglia, tentazione onnipresente per chi vive scrivendo. Io scrivo solo per due, tre ore al giorno, a mano e su fogli A4. Poi poso la penna e per tutto il resto della giornata sono lì per i miei figli e scaccio qualsiasi pensiero sul libro che dovesse venirmi». Però il suo status di scrittore famoso è sempre lì come un convitato di pietra tra lei e i suoi familiari? «Niente affatto: i miei primi due figli – che oggi hanno venticinque e ventitré anni – mi hanno rivelato che ci sono voluti degli anni perché scoprissero che ero uno scrittore. Non avevo mai parlato con loro del mio lavoro quando erano piccoli. E siccome il mio indirizzo è segreto, così come il mio numero di telefono, i miei figli non hanno mai dovuto confrontarsi con l’attenzione dei media. Hanno scoperto che sono uno scrittore solo perché i loro compagni di scuola gli hanno detto che i genitori avevano i miei romanzi». Ma allora i suoi quattro figli non hanno mai letto ciò che lei scrive? «No», risponde Høeg, e sembra più sincero rispetto alla storiella del supermercato. «E non credo che li leggeranno. Ma non perché io glielo vieti: sono liberi di fare ciò che desiderano. Ma da quel che ho capito preferiscono loro stessi mantenere una certa distanza di sicurezza da quella parte di me». Ma non esagera in cautele? Cosa c’è di tanto pericoloso nell’essere famosi? «Penso che per ogni essere umano che sperimenti il successo, come è capitato a me con Smilla, c’è un rischio concreto: l’infelicità», risponde Høeg. «Ciò che il successo ti fa dipende da quanto tu sei radicato in te. L’immagine che mi piace avere di me stesso è un filo d’erba. Quando il vento soffia, che sia il vento del successo o quello del fallimento, il filo ondeggia. Posso gioire se qualcuno apprezza un mio libro o dolermi nel caso contrario, ma alla fine – grazie alla radice – il filo ritornerà in equilibrio. Io scrivo proprio da qui, dalla radice».
Oggi Høeg appare equilibrato e saggio come un guru. Ma è sempre stato così? «Tutt’altro: da ragazzo mi sentivo imprigionato in una specie di buco nero di frustrazione e risentimento. I miei genitori mi iscrissero a una scuola privata religiosa molto rigida, dove per sette, otto anni ho ricevuto punizioni fisiche, perché ero un ragazzino testardo. Finché un bel giorno mi cacciarono. Durante l’intervallo, andai di classe in classe e dissi, con voce ferma, che gli insegnanti da quel momento erano in sciopero e quindi tutti potevano tornare a casa. Svuotai la scuola. Il giorno successivo il direttore mi ordinò di raccogliere le mie cose, salutare tutti e non farmi più vedere». Le sue parole, e bugie, hanno trasformato la realtà: pur non avendo ancora scritto un rigo, era già un narratore: «Sì, ma distruttivo. E continuai così: a venticinque anni, un giorno sorpresi così i miei genitori: “Vado a fare il marinaio su una nave da crociera: salpo domani. Potremmo rivederci, come potremmo non rivederci più se la via del mare diventerà la mia via”. Ero ancora un selvaggio». 
La serenità arriverà solo a trent’anni. «E nel mezzo della crisi peggiore della mia vita: piangevo da tre settimane perché ero sicuro che la mia compagna mi avrebbe lasciato. Lei a quel tempo viveva in Africa. Un giorno decisi che non sarei riuscito a vivere senza di lei e mi feci portare in aeroporto da un mio amico. Durante il viaggio mi lasciò sfogare senza ribattere, ma prima di salutarmi mi disse: “voglio solo darti questo libro”. Un piccolo libretto rosso, intitolato Coscienza superiore, che insegnava a meditare» ricorda Høeg. «In volo, tra le lacrime, aprii il libro alla prima pagina. Spiegava come ristabilire l’equilibrio tra mondo interiore e mondo esterno. Appena letta la frase, concentrandomi sul colore rosso delle poltrone, mi resi conto di trovarmi in un momento senza gli ingombri del passato e del futuro. Non c’era nemmeno il presente, ma piuttosto la pura presenza. È allora, su quell’aereo, in quel punto imprecisato del cielo, che ho capito che avevo trovato qualcosa che sarebbe rimasto sempre con me. Avevo finalmente trovato Peter».