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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

N.Y. music stories

NEW YORK C’È ANCORA CHI SI AFFANNA, tra la Bowery e Bleecker Street, alla ricerca delle vestigia del rock, in quella Lower Manhattan che fu terreno fertile di controcultura, rifugio di artisti e drop out e, oggi, confortevole, ampio, tortuoso, protettivo labirinto per vip (qui vivevano David Bowie, Heath Ledger e Philip Seymour Hoffman, qui vivono John Legend e Robert De Niro, qui ci sono annidati gli hotel preferiti da rockstar e top model, come il Mercer e il SoHo Grand) in fuga dal caos di Times Square, dal formicolìo umano della Quinta, dall’intrusivo interesse dei turisti a caccia di celebrity a Madison, Park Avenue o nello scintillante quadrilatero di Broadway, a Midtown, dove è più facile vincere la Green Card alla lotteria che incrociare il divo di turno che sgattaiola dalla stage door di un teatro. La metropoli globalizzata sta cancellando le tracce lasciate da Pete Seeger, Dave Van Ronk, Bob Dylan e Simon & Garfunkel; demolisce le cantine a mattoni, mute testimoni delle performance di John Coltrane, Nina Simone e Shirley Horn; mimetizza e rende irriconoscibili i loft dei maestri del minimalismo e della pop art. I piccoli imprenditori testardi che ancora pretendono di smerciare dischi e libri sono eroi alla deriva, una razza in via di estinzione anche nel Greenwich Village, che una volta ribolliva di folk, rock e jazz. Rarissimi i bugigattoli che ancora vendono vinili, i seminterrati che profumano di vecchi libri e beat generation, le insegne al neon che fibrillano soltanto per chi ha buona memoria – qualcuno tristemente esibisce lo sfratto esecutivo incorniciato sopra la cassa – strangolati tra boutique monomarca, posticini chic stile Sex & the City e ristoranti stellati. Non c’è più neanche il CBGB’s, sulla Bowery, trasformato in una boutique di John Varvatos, il più rock friendly tra gli stilisti. Ma hip non fa rima con punk e del furore di Tom Verlaine, David Byrne, Patti Smith, Blondie e Ramones resta memoria solo in una targa e in un bel libro fotografico in vendita tra costosissimi capi d’abbigliamento. Neanche a Harlem, lo storico ghetto nero di New York, ormai da anni sottoposto a un massiccio restyling architettonico che pietosamente ha risparmiato lo storico Apollo Theater, è impresa facile rintracciare i condomini dove abitarono Duke Ellington e Billie Holiday, Lester Young e Malcolm X, Langston Hughes e James Baldwin; tantomeno l’esatta ubicazione del mitico Cotton Club o degli hotel non proprio di lusso ma certo di lustro (come il Theresa) che ospitarono Charlie Parker e Martin Luther King. I giovani artisti – per loro quegli anni sono il Rinascimento di Manhattan e Andy Warhol il Lorenzo dei Medici della Big Apple – non riescono a trovare angoli a buon mercato in quella lingua di terra assediata dagli investitori. Ce lo aveva già detto Lou Reed prima di morire, mentre divorava un minestrone e una cotoletta in un ristorante italiano vicino casa sua, tra Bleecker e Perry, in quel West Village dove quando era il cantore tossico dei Velvet Underground poteva al massimo permettersi una patata al cartoccio in una taverna per residuati beatnik, perché vip e ricchi laggiù, come a Harlem, scendevano (o salivano) solo a curiosare e trasgredire: «Per la Factory di Andy (Warhol) non ci sarebbe posto oggi a Manhattan, forse a Brooklyn o al Queens…» (che è esattamente dove oggi si muove la scena alternative, ammesso che ne esista una di quelle proporzioni).
La pubblicazione di New York Serenade, il libro fotografico realizzato da Ciro Frank Schiappa con testi di Michele Primi è un atto d’amore, una carezza a quel che resta della storia del rock nella Manhattan verticale, costretta (per evidenti ragioni di spazio) a cancellare il vecchio e a far posto al nuovo con la stessa frenesia con cui si rincorrono news e mode. Ma il palazzo che il fotografo Peter Corriston (un residente nel Greenwich Village) immortalò sulla copertina di Physical Graffiti dei Led Zeppelin (1975), all’incrocio tra l’Ottava Strada e St. Mark’s Place, è ancora lì, “fotogenico” come quando Mick Jagger e Keith Richards, sei anni dopo, lo scelsero come location per il video di Waiting On A Friend, ben consapevoli che in quel quadrilatero rimasto paese avevano vissuto, bighellonato e creato W. H. Auden, Allen Ginsberg, Leon Trotsky, Abbie Hoffman e Lenny Bruce – poeti, attivisti, protagonisti dello spettacolo off. A St. Mark’s Place, che ancora non è stato divorato dai grattacieli, nel 1989 Shane Doyle e Karl Geary, immigrati irlandesi, inaugurarono il Sin-é, che sarebbe diventato “la casa” di Jeff Buckley e il teatro del suo album d’esordio (il locale ha chiuso i battenti nel 1996).
In New York Serenade gli autori utilizzano frammenti di canzoni, pensieri e suggestioni degli stessi musicisti per raccontare in immagini – a volte insignificanti senza le indispensabili didascalie – il primo appartamento newyorchese di John Lennon e Yoko Ono, già residenza di Joe Butler dei Lovin’ Spoonful, al 105 di Bank Street; la boutique del Lower East Side dove Jimi Hendrix trascorreva la maggior parte dei suoi pomeriggi, non lontano dall’ex centro di accoglienza per poveri e immigrati trasformato negli anni Ottanta nel condominio abitato da Iggy Pop; la prima casa che nel 1967 fu la tana di Robert Mapplethorpe e Patti Smith; il magazzino di Norfolk Street che ospitava il Tonic Club; il leggendario Bottom Line, dove il Boss mosse i primi passi, a un tiro di schioppo da Washington Square, ora trasformato in un ufficio della New York University. «Abbiamo camminato sulle stesse strade che hanno ispirato le liriche e il senso di stupore di New York City Serenade di Bruce Springsteen (nell’album The wild, the Innocent & the E Street Shuffle, 1973)», raccontano gli autori. «Queste quarantotto immagini raccontano una storia che si sviluppa dagli anni Settanta ai giorni nostri, per celebrare un passato sfocato ma non dimenticato». Dietro le facciate, le insegne, i finestroni, gli angoli di strada, i vecchi ascensori, si scorgono i fantasmi di Lou Reed e Dylan, di Leonard Cohen e Janis Joplin, dei Beastie Boys e dei National, luoghi mitici celebrati in canzoni, biografie e interviste, come il leggendario Max’s Kansas City, club preferito da Andy Warhol, dove Bowie e Iggy Pop si strinsero la mano per la prima volta. La megalopoli del nuovo millennio sta stritolando tutto? Gli autori di questa folle, meticolosa e maniacale avventura editoriale sono ottimisti: «Magari da qualche altra parte, in un angolo della città ancora da scoprire, sta nascendo il futuro del rock and roll».