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 2016  ottobre 29 Sabato calendario

Colli-Gaber. «A casa nostra non si parlava mai di politica»

Mio marito. Non lo chiama mai per nome, ma con quel possessivo insistente che vuole dire molte cose. Ombretta Colli è più simpatica di come voglia apparire. La carriera politica le ha accentuato il tratto sicuro, forse anche un po’ diffidente. A volte sembra che si compiaccia nel ruolo della dura, della roccia che deve zavorrare il poeta a passeggio tra le nuvole. L’artista è Giorgio Gaber, uno dei più grandi. E certo l’incastro tra due persone così diverse ha a che fare con la chimica degli opposti, concretezza e poesia, determinazione e tormento. Ma il gioco può anche rovesciarsi e allora Ombretta la tosta rivela il suo lato debole, quando alle domande più dolorose sugli amori di Gaber sorride in modo incerto e si difende: «Queste sono cose private». La casa è sempre la stessa, da quarant’anni. Una palazzina milanese di tre piani in via Frescobaldi, mobilia intarsiate del Settecento inglese interrotte da una madia antica di origine rurale. «Mio marito è la madia, io il resto», suggerisce lei anticipando il racconto della differenza.
Il primo ricordo di Gaber?
«Lui pallido che cerca il portafoglio. Mi aveva invitato a pranzo dopo il servizio fotografico: all’ultimo avevo sostituito la modella chiamata per il lancio del suo disco Benzina e cerini. Era il 1961. Al momento di pagare realizzò che non aveva i soldi».
Aveva dimenticato il portafoglio.
«No, non lo prendeva mai. Aveva un rapporto con il denaro tutto suo. E poi non aveva mai bisogno di niente».
È diventato amore a poco a poco… Lo diceva Gaber in “Così felice” dedicata a lei.
«Diciamo che eravamo tutti e due molto impegnati. La storia sarebbe cominciata più tardi, quando ci incontrammo sempre per caso a Roma: entrambi senza più impegni».
Da cosa capì di essere innamorata?
«Istinto. Sin dal principio ebbi la sensazione che sarei stata con lui tutta la vita. Eravamo molto giovani – io avevo 18 anni, lui 22 – e sentivamo che non ci saremmo separati mai».
Gaber cantante già affermato con “La ballata del Cerutti Gino”,  lei attrice dalla fisionomia più incerta. Forse si preoccupava di non sovrastarla.
«Questa è stata una palla nella testa altrui, una cosa che nella realtà non ci ha mai sfiorato. Ci piacevano le stesse cose, e la sera ci scatenavamo in discoteca: soprattutto twist e rock and roll. I balli latini non facevano per lui, “non mi viene il colpo d’anca”, rideva divertito della sua goffaggine».
Le diceva “ti amo”?
«Sì, ma alla sua maniera. “Noi due possiamo andare molto lontani…”, mi disse una sera tenendomi per mano. Era un periodo in cui si viaggiava tanto, io ero innamorata dell’America latina. “Terra del fuoco?”, mi illuminai gioiosa. “Ma no, intendevo sposarci…”. Me l’avrebbe rinfacciato nei successivi trent’anni».
Cosa fece innamorare Giorgio?
«Non saprei, forse il mio decisionismo».
Lui era meno deciso?
«Doveva elaborare, pensare e ripensare. “Dai, buttiamoci nella caverna del tormento”, lo provocavo per farlo sorridere».
Eravate molto diversi.
«Sì, lui un artista nel vero senso della parola, io donna molto concreta: gli estremi opposti si possono attrarre. E trovare un modo per convivere. Poi i ruoli non sono mai fissati per sempre. Lui era ossessivo sul lavoro, un’attenzione al dettaglio rigorosissima: ogni cosa deve stare geometricamente al suo posto. E anche ogni pensiero. Essere un po’ più precisi, ordinati, severi con se stessi me l’ha insegnato lui».
E Gaber la ricambiò rendendo pubblico omaggio alla sua forza e alla sua determinazione.
«Capivo le cose e lo incoraggiavo. A cavallo tra i Sessanta e i Settanta, mi accorsi che s’era stufato di andare in Tv, sorridere, fare i suoi numeri da cantante tradizionale. Giorgio, tu vuoi dire delle cose più che cantare: molla tutto e ricomincia a teatro. Fu così che iniziò la stagione del Piccolo. Per due anni i suoi spettacoli furono snobbati dal pubblico. Non gli perdonavano di aver lasciato la musica popolare per fare l’intellettuale che scuote le coscienze. Però poi ebbe un successo straordinario».
Riuscì a cogliere le trasformazioni del paese con un’acutezza incredibile: impegno e disimpegno, i conformismi di sinistra, l’appiattimento culturale, lo svuotamento della democrazia. Come viveva a casa questo ruolo?
«Aveva un intuito collettivo straordinario, ma ha sempre vissuto il successo con misura. Meno male, è andata bene, mi diceva. Credo che questa sobrietà gli derivasse anche dalla malattia patita nell’infanzia. Una volta in ospedale, durante uno dei suoi ricoveri per la poliomielite, passò la notte accanto a un uomo morto. Credo che lì abbia imparato ad apprezzare la felicità della normalità».
Confessava che c’erano territori di solitudine in cui nessuno poteva accompagnarlo, né la moglie né la figlia Dalia che pure amava molto.
«Credo fosse proprio il pensiero della morte. Cercavo di buttarla sul ridere, ma non sempre riuscivo ad alleggerire la sua malinconia. Riconosceva il dolore degli altri da lontano. “Mamma mia, che faccia addolorata”, diceva di persone appena conosciute. “Ma no, è solo serio”. “No, non è serietà, quello è dolore”. E ci prendeva sempre».
Come accolse la sua decisione di candidarsi con Silvio Berlusconi?
«Tranquillissimo. Una sera a cena gli dissi che Berlusconi mi aveva chiamato per sondare la mia disponibilità. “E tu che hai deciso?” “Ci devo pensare”. Quando poi gli comunicai la mia scelta, disse una cosa che avrebbe ripetuto ogni tanto: la politica ha bisogno di persone per bene. E mia moglie è una persona per bene».
Un atto d’amore straordinario.
«Vero. Ma anche un gesto naturale. Eravamo due personalità diverse legate da un incastro formidabile. E il tempo ci ha dato ragione».
Mi perdoni, ma fu Gaber a inventarsi il celebre motto: non temo il Berlusconi in sé, temo il Berlusconi che è in me.
«Non è che dall’altra parte ci fosse una classe politica che mio marito stimasse granché…».
Ma c’è una distanza siderale tra l’anticomunismo di Berlusconi e l’autore di “Qualcuno era comunista”.
«Ma lei pensa che a casa nostra si parlasse di questo? Tra noi c’era un patto di sangue, anche un’esperienza condivisa di battaglie libertarie a favore della legge per il divorzio e contro gli aborti clandestini. Rivendico di essere stata una delle prime femministe in Italia».
Gaber l’ha mai votata?
«Sì. Non votava da anni, ricominciò a farlo per me. “Giorgio, non è necessario”, gli dissi la mattina delle elezioni. “Ma se poi non vinci per un voto…”».
Come ha vissuto la sua malattia?
«S’è battuto come un leone. “Non crederai che mi metta a fare il malato sul divano con la copertina…”, mi disse accendendosi una sigaretta. Eravamo appena entrati a casa dopo aver appreso il verdetto. Non riuscivo a far finta di niente. Così lui per tranquillizzarmi: dai, non è mica detto. Dicono tante di quelle fesserie che una più, una meno…».
Gli ultimi giorni.
«Aveva capito che non c’era più niente da fare, così mi confortava dicendomi che eravamo stati molto fortunati. Poi però affiorava il suo cruccio costante: mi dispiace lasciarvi in questa baraonda, in questo niente che sta per arrivare. Baraonda, casino, un mondo in dissoluzione. Acqua tiepida».