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 2016  ottobre 29 Sabato calendario

A Vibo sulle tracce di Mister 163 milioni. «Grazie a lui la città può rialzare la testa»

VIBO VALENTIA Un solo nome, ripetuto quasi ossessivamente. «È lui, vedrete», declinato con i dettagli anagrafici e senza nessuna empatia per le capriole della fortuna. Segreti e chiacchiere galleggiano sotto una pioggia lenta e incessante, il cielo è diventato solo più cupo e risentito sulla Vibo Valentia che si è svegliata arcimilionaria dopo il jackpot da (quasi) paura, il 6 perfetto giocato su un’unica scheda, il secondo montepremi più ricco di sempre che neanche servirà – con ogni probabilità – a cambiarle la vita.
«Il nome sarebbe quello, sì: un anziano signore, ha fatto l’ingegnere, abita in quella zona». Stessa frase di bocca in bocca, dal panettiere alla farmacia, dai tassisti al garzone di bar. Tutti lo nominano tranne la famiglia proprietaria della tabaccheria baciata dalla sorte, dove sia Mimmo il titolare, sia sua moglie Italia, sia la figlia Cristina Lo Bianco si affrettano a negare quell’identificazione. «Ma chi lo conosce? Mah... Faccia così: scriva solo che, chiunque sia, si deve ricordare della città. Ma non con i regali, deve aprire un’azienda, investire, offrire lavoro – si scalda Mimmo, indicando la sua bella figlia, laureata in Giurisprudenza e inattiva – Cristina era emigrata a Roma, suo fratello al nord. Poi, non ce la fanno a stare lontani».
Richieste, desiderata, tragicomiche liste alla Babbo Natale partono verso l’Ignoto Giocatore. Ma colui che molti sembrano aver individuato come presunto imperatore di Vibo, un ex professionista prestato tempo fa alla politica, sulla settantina, raggiunto nel suo salotto di semplice casa borghese, per verità o per calcolo nega tutto: toni accesi e imprecazioni, in un breve dialogo con Repubblica. E anzi minaccia «immediate denunce» in procura. «Siamo stufi, riceviamo telefonate, allusioni. Basta», racconta sua figlia, descrivendosi come affaticata precaria. Mentre, per mezza città, è già una ricca ereditiera.
Il paese che non ha mai puntato su se stesso ora dà la sottile caccia a chi ha scommesso tre euro per farsi travolgere da un diluvio di 163 milioni e mezzo di euro più due di bonus per il numero “stella”, il superenalotto beffardo e crudele perché precipitato su un brandello fin troppo emblematico di Calabria dimenticata e (in tutti i sensi) in dissesto. Un diluvio di soldi che precipita su un pezzo di Sud tra i più depressi in assoluto: un Comune di 40mila abitanti, con il 30 per cento di giovani disoccupati, oltre il 60 di laureati che emigrano, «con le famiglie povere che aumentano sempre di più in coda nelle parrocchie», raccontano nel Duomo intitolato a San Leoluca. E, come altrove, con radici profonde di potere ed economie criminali, che accendono alleanze e tracciano imperi molto al di sopra dei jackpot: come a Vibo fanno da decenni i boss dei Mancuso, storico cartello di ‘ndrangheta impegnato nel narcotraffico tra i due mondi.
«Ma l’ha visto il paese? Anche oggi, è triste: persino dopo un tale evento non riesce a sorridere e alzare la testa», spiega indicando corso Vittorio Emanuele un funzionario di Stato in pensione, uscito dalla pasticceria dove ci si rincuora con sapienti pasticcini alle mandorle.
Sono nette, però, anche le voci di chi non si chiede chi sia, ma soltanto cosa farà, l’Ignoto Giocatore, per la città. Quelle del sindaco, dell’ex procuratore capo Elio Costa. Del parroco della cattedrale, don Antonio Purita. O di Raffaele Vitale, preside degli 850 studenti dell’istituto Sant’Onofrio dove ieri s’è speso del tempo sull’argomento. «Con i ragazzi delle medie abbiamo ragionato sull’incredibile misura di tutto quel denaro – spiega il dirigente scolastico – Loro non capivano. Poi uno si è alzato: “Quindi io mi potrei comprare Higuain e, dopo, mi restano ancora quasi gli stessi soldi che sono serviti a comprarlo?”».
La voce del sindaco Costa, invece, quasi s’incrina al pensiero di quante cose si potrebbero fare con «una minima parte di quell’enorme patrimonio. Penso al teatro che aspettiamo da fin troppo tempo, visto che negli anni Sessanta si pensò bene di demolire un gioiello di architettura ottocentesca per far posto al palazzo dei Telefoni. Ma c’è un’emergenza più grande: chi ha vinto questa fortuna dia almeno il denaro che serve per la messa in sicurezza delle nostre scuole. Si tratta solo di 3 o 4 milioni: per lui un granello di sabbia. Lo faccia se ha una coscienza, pensi a un figlio o a un nipote. Poi capisco tutto, la paura dell’esposizione, delle mafie, ma il suo anonimato sarebbe impenetrabile».
Anche don Antonio, dopo la messa delle sette di sera in Duomo, alza gli occhi al cielo: «Uno può perdere la testa. Spero che questa persona faccia del bene, la città ne ha un disperato bisogno. Sempre più famiglie ridotte alla sopravvivenza: cassintegrati, licenziati. C’è molto da fare: anche con una briciola di tutta quella roba. Che, detto tra noi, mi riesce difficile pure immaginare». E almeno lui sorride, sopra la Vibo ubriaca di zeri.