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 2016  ottobre 28 Venerdì calendario

La miniera vuota della Svezia, il paese di Borg non sa più giocare

ERANO gli Anni Cinquanta. L’Italia si stava riprendendo a fatica dalla guerra, mentre della Svezia si leggevano notizie affascinanti. Era come abitare in un caseggiato rabberciato dalle bombe, vicino a una villa magnifica, o presunta tale a causa di un ricco giardino che ci separava. Giovane tennista avventuroso, attratto anche dai racconti sulla libertà sessuale delle scandinave, decisi un viaggio, e fui sorpreso dalla mia conferma di tennista non meno che dalla mia fin lì incerta virilità. Sbarcato a Bastad, la Wimbledon svedese, riuscii a raggiungere la finale, nella quale venni facilmente battuto dal vichingo Davidson (poi N.3 del mondo) ma ebbi un amore per una liceale che mi ospitò in casa sua, genitori incredibilmente consenzienti. Ricordo che il primo direttore del Giorno, Gaetano Baldacci, non volle credere a un mio diario scandinavo, e mi convocò, per suggerirmi scritti più attendibili e meno audaci.
Da allora, i miei viaggi a Bastad divennero frequenti, grazie alle finali europee di Davis che italiani e scandinavi erano in grado di raggiungere. Ci andai non meno di tre volte, in panchina con i miei ex compagni azzurri Pietrangeli e Sirola, assistendo nel contempo ai nove match che i due paesi disputarono tra il 1953 e il ‘64, con sei vittorie italiane. Divenuto scriba, e non più tennista per una grave malattia, non feci che ammirare non solo il comportamento civilissimo degli spettatori e dei giudici, che mai ci sottrassero una palla, a differenza di quanto accadeva al Porro Lambertenghi di Milano, ma fui affascinato dall’assenza della vergogna chiamata tifo, sostituito da un sostegno dignitosamente patriottico.
La mia simpatia per un paese tanto civile non fece che accrescersi, negli Anni 80 e 90,nel corso di ben nove finali di Davis svedesi (6 vinte, l’ultima contro di noi) e fu confermata quando iniziai a seguire lo sci, il cui pubblico, sia per il fondo che ai tempi dello slalomista Stenmark, avversario di Thoeni, non fu mai dissimile da quello del tennis.
Ai tennisti Davidson, Johansson e Bergelin, finalisti di Davis, altri ne seguirono,Borg primo tra tutti, che ebbi la fortuna di intuire grande proprio a Bastad, quando a presentarmelo fu Percy Rosberg, un allenatore coetaneo che, alla mia sorpresa per un rovescio bimane mai visto osservò: «L’ha imparato giocando a hockey su ghiaccio, mi pare sbagliato modificarlo». Proprio quel rovescio, e un un non meno insolito schiaffo di diritto, furono le armi che condussero Borg ai grandi successi, una via che percorsero poi altri due Grandi, Wilander e Edberg, tanto diversi l’uno dall’altro da non attribuirne la personalità ad una scuola, quanto all’educazione sportiva e umana degli scandinavi.
Ora queste felici nascite, che ho sempre creduto effetto della razza e dell’educazione, sportiva e no, di un civilissimo Paese, sembrano essersi arrestate, tanto che mi sono affrettato all’acquisto di un libro “Game Set and Match” (Ed. Add) che me ne spiegasse le ragioni. Il libro indugia sulle vicende della fine di carriera degli ultimi tre grandi svedesi, Borg sconvolto dal fallimento dei suoi tentativi commerciali e di un matrimonio con la cantante Loredana Bertè, Wilander squalificato per uso di cocaina notturna, Edberg deciso a trasferirsi dalla Svezia in Gran Bretagna. Ma non giunge a dirci con chiarezza il perché di una scomparsa della Svezia dal mondo del tennis. Nel prossimo match, che gli svedesi disputeranno contro Israele, il numero uno sarà Elias Ymer, N. 158 ATP, nato da una famiglia etiope che, in Svezia, aveva trovato rifugio. Una delle ragioni che gli autori Holm e Roosvald elencano per spiegare il declino è l’assenza dei tornei challenger (fuorché uno solo), che rappresenterebbero le circostanze ideali in cui giovani tennisti potrebbero avviarsi alle gare professionistiche. Mancano accenni all’attività federale, a quella scolastica, e a un’organizzazione di sport-studi, simile alla Francia, che ha permesso ai giocatori di quel paese di piazzare 4 tennisti tra i primi 20, in attesa della nascita di un nuovo Noah. Non sono deluso da simili mancanze, forse inutili alle vendite del libro, quanto dalla scomparsa della Svezia da uno sport che ha spesso significato benessere e civiltà.