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 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

Quelle partite Iva schiacciate nella morsa del massimo ribasso

Sono in arrivo entro fine anno nuove misure per tutelare la dignità del lavoro autonomo (lo Statuto) ed è stata anche ottenuta una riduzione del contributo alla gestione separata Inps ma per le partite Iva non si annunciano tempi facili. Il motivo può essere sintetizzato così: le norme migliorano ma le relazioni di mercato peggiorano. Il terziario italiano vive infatti una stagione di grandi difficoltà e il massimo ribasso sembra diventato la filosofia dominante. A praticarlo sono le amministrazioni pubbliche nei bandi che emettono ma anche il sistema (privato) delle imprese non si comporta molto diversamente, pare che la qualità del servizio interessi meno. È passata l’idea che i servizi non siano capaci di produrre valore e ne vadano quantomeno limitati i costi. E la vicenda, per altro molto diversa, dei call center sembra avere un punto in comune: la relazione con il mercato/consumatori, che dovrebbe essere decisiva, viene affrontata solo con la logica del prezzo più basso.
Il bilancio tra chi apre e chiudeTorniamo alle partite Iva. Rispetto al passato i dati sulle aperture vanno a singhiozzo, in generale scendono rispetto al 2015 ma capita anche che qualche mese faccia eccezione. Quest’anno c’è stato un calo di aperture per cinque mesi consecutivi (con punte di -7%) interrotto solo dal dato di agosto. Vale la pena però ricordare come in Italia dall’inizio della Grande Crisi al 2015 si siano comunque aperte ogni dodici mesi circa 500-560 mila nuove partite Iva. Sulle chiusure i dati pubblicati dal Mef si fermano al 2014 e mediamente si può dire che ne cessano ogni anno tra le 350 e le 400 mila. Il commercio e la ristorazione, che erano stati i settori prevalenti, segnano il passo anche perché gli spazi di mercato – specie nelle grandi città sulla scia di Expo – si sono intasati e non è facile inserirsi con nuove proposte. E anzi c’è il rischio di un turnover ancora più rapido e inoltre l’avanzata del commercio online sta modificando la mappa del settore ovviamente a vantaggio dei big player e non certo dell’auto-impiego. Anche l’agricoltura cresce seppur con un andamento altalenante mentre il settore che sembra promettere maggiori chance è la sanità «allargata». Aumenta sia il numero di medici/infermieri a partita Iva sia l’apertura di centri di fitness e fisioterapia. Per i professionisti non ordinisti che lavorano prevalentemente con le amministrazioni locali (formazione, consulenza sulle politiche pubbliche) non tira buona aria nonostante la liberalizzazione dei bandi Ue.
L’outsourcing poveroMa sono i comportamenti del sistema delle imprese quelli che vanno attentamente monitorati. Le filiere produttive si allungano e comprendono anche il segmento dei servizi e del resto spesso l’innovazione di oggi è a valle ma siamo di fronte a un peggioramento dell’outsourcing. Prima la filosofia che induceva all’esternalizzazione era quella di risparmiare e di avere nel contempo competenze professionalizzate/indipendenti ma i segnali che arrivano oggi dal mercato parlano però di un outsourcing «povero». Alcune attività professionali vengono trattate come delle pure commodity e questo avviene anche nella capitale italiana del terziario, Milano, che pure giura di puntare sulla qualità. Anche per i creativi non sono tempi di vacche grasse. E nei giorni scorsi anche Confcommercio Professioni ha organizzato un convegno pubblico per manifestare il disagio di consulenti del lavoro, psicologi, guide turistiche e persino erboristi. La conseguenza, infatti, è che il mercato delle professioni si polarizza drasticamente, con differenze che riguardano la tipologia delle professioni e attraversano ciascuna di esse. La divaricazione è molto selettiva e si può stimare nelle proporzioni di 1/4 che conserva commesse e margini e di 3/4 che trova spazi sempre più esigui e di conseguenza non è in grado di finanziare le spese per aggiornare le competenze. I motivi secondo Anna Soru, presidente di Acta (professionisti del terziario avanzato) sono questi: «Una ripresa economica debole, un eccesso di offerta in tante professioni anche ordinistiche e l’assenza di minimi contrattuali che facciano da argine. Lo Statuto del lavoro autonomo affronta questo nodo normando la tutela dei pagamenti e combattendo le clausole vessatorie ma per tentare di regolare i compensi la strada è più complessa». Commenta l’economista Enzo Rullani: «La svalutazione della prestazione sul breve colpisce le partite Iva ma sul medio-lungo periodo ne fa le spese la stessa impresa. Purtroppo manca la consapevolezza di questa dinamica, se un’azienda non è contenta dei propri consulenti dovrebbe cambiarli, non pagarli meno. Aggiungo che la digitalizzazione porta con sé un’inevitabile standardizzazione del servizio che finisce per costare sempre meno ma infligge all’impresa la doppia condanna della mancata qualità e della perdita di identità».
Roma batte MilanoSe dal Nord ci spostiamo a Roma le cose non cambiano. La Capitale nell’apertura di partite Iva batte Milano (nei primi otto mesi del 2016 sono state 30.958 contro 22.813) e molto si spiega con una richiesta esplicita delle amministrazioni pubbliche e con il peso delle collaborazioni esterne in Rai. Roma è città di servizi ma sconta la mancata nascita di un terziario moderno. Commercialisti che vendono pacchetti di servizi contabili e fiscali tutto compreso a 30 euro al mese, avvocati che accettano 10 euro per andare in udienza, bandi pubblici dove viene scritto che determinate prestazioni professionali sono svolte a titolo gratuito. Pure il turismo che rappresenta una voce importante del Pil laziale non ha visto nascere nuove figure professionali e un’innovazione di prodotto. Le amministrazioni spesso ricorrono alle cooperative per far scendere il costo del lavoro e nei servizi tradizionali la concorrenza al ribasso è quasi senza limiti con il rischio che le piattaforme di servizi contabili continuino a trasferirsi in Albania e domani in India. «Siamo a un bivio – spiega Andrea Dili, presidente di Confprofessioni Lazio —. O una lenta agonia condita dall’illusione di fare concorrenza sul prezzo di servizi a sempre più basso valore aggiunto o reinventare il comparto dei servizi professionali puntando su specializzazione, integrazione e aggregazione delle competenze». Purtroppo l’eccessiva frantumazione degli studi professionali italiani non aiuta.
Se questo per sommi capi è il quadro che si trovano davanti i giovani, i professionisti della conoscenza e anche molti ordinisti, che considerazioni si possono fare? Di sicuro c’è stata un’età dell’oro in cui il mondo professionale ha goduto di rendite di posizione ed è riuscito a farsi strapagare in virtù di una sorta di rendita monopolistica, ma il quadro è del tutto cambiato. La cancellazione delle tariffe e delle regole conseguenti è stata una richiesta di Bruxelles e anche della cultura liberale italiana per abbattere vincoli e corporazioni, i risultati però li abbiamo davanti agli occhi. Rischiamo di diventare la società del massimo ribasso e di compromettere ancora di più le performance di produttività di un terziario a basso valore aggiunto.