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 2016  ottobre 24 Lunedì calendario

Cina e Filippine, matrimonio sul Pacifico 24 miliardi e Usa addio

Pechino L’ Esercito popolare di liberazione ha centinaia di testate nucleari puntate verso le Filippine ma la conquista di Manila è avvenuta sparando un colpo solo: da 24 miliardi di dollari. E del resto: che cosa sono 24 miliardi di promesse di fronte a 180 miliardi di spese per la corsa agli armamenti? La matematica non è un’opinione ma l’economia è dai tempi di Adam Smith e dintorni che porta quel cognome lì: politica. E non è un caso che il sorriso del presidente Xi Jinping adesso fa un semicerchio di smile grande quanto quello che Pechino ha disegnato nel Mar della Cina per circondare le isole contese con le nazioni di tutto il Sud est asiatico. L’accordo diplomatico, politico e soprattutto finanziario che nei giorni scorsi il capo di tutte le Cine ha fatto firmare a Rodrigo Duterte, il presidente che aveva già mandato Barack Obama “affa” e ora ha annunciato “la separazione dagli Usa”, è più che una svolta nei rapporti tra i due vicini di mare e – fino all’altro ieri – nemici di arcipelago: può diventare un punto di non ritorno negli equilibri di quest’Oceano sempre meno Pacifico. 
Le testate nucleari che la Cina punta verso le Filippine sono un avvertimento all’America che nella sua ex colonia conserva le cinque basi militari per arginare il Dragone. Ma la spallata di Duterte allo Zio Sam, per cacciarsi tra le braccia dello Zio Yuan, è un colpo già andato a segno: che bombarda l’equilibrio economico dell’intero quadrante. È vero che la Cina è già il secondo partner delle Filippine, ma il primo è il Giappone, cioè il più solido alleato Usa nell’aera, il terzo sono proprio gli americani e il quarto è un altro amico degli yankees, Singapore. Calcola Foreign Affairs che il 42,7 per cento dell’export di Manila va oggi proprio verso il blocco dell’alleanza pro Usa, contro il 10,5 per cento che va alla Cina e l’11,9 a Hong Kong. Stessa solfa per l’import: «Dalla Cina arriva solo il 16,9 per cento mentre il resto proviene da Usa e alleati, compresi Giappone, Taiwan, Singapore e Sud Corea». 
Ecco perché questo terremoto, con tanto di tsunami annunciato, ci riguarda tutti molto più da vicino di quanto pensiamo. Da quelle acque passano 5 mila miliardi beni, e oltre un quinto del commercio Usa. E non per niente un grande politologo come Robert Kagan ha suonato il campanello d’allarme nel suo “Calderone asiatico”: per spiegarci che sulla nuova battaglia del Pacifico si gioca il nuovo ordine mondiale. Più della metà della flotta mercantile globale passa per il Mar della Cina del sud: un terzo dell’intero traffico marittimo mondiale. Di più. «Il petrolio trasportato attraverso lo stretto di Malacca dall’Oceano Indiano, in rotta verso l’Asia dell’Est attraverso il mar della Cina del Sud, è il triplo di quello che passa dal Canale di Suez e quindici volte quello che passa per il Canale di Panama». 
Avete già la calcolatrice alla mano? Ecco qua: «Quasi due terzi dei fabbisogni energetici della Corea del Sud, quasi il 60 per cento di quelli del Giappone e di Taiwan e l’80 per cento delle importazioni di petrolio della Cina passano attraverso il Mare della Cina del Sud». E gli occhi di Pechino non sono solo puntati su questa autostrada del mare: anche e forse soprattutto su quello che ci passa sotto: «Il Mare della Cina del Sud ha riserve di petrolio per 7 miliardi di barili, e se i calcoli della Cina sono corretti contiene più petrolio che qualsiasi altra aerea del globo esclusa l’Arabia Saudita». 
Abbiamo finalmente capito di cosa parliamo quando parliamo di isole contese tra Cina, Filippine, Vietnam & C.? Quegli scogli dispersi lì nel Pacifico sono la chiave del potere di domani: anzi già di oggi. Ecco perché la sentenza dell’Onu che aveva accolto il ricorso di Manila contro le pretese cinesi era suonato come uno schiaffo all’imperialismo di Pechino. Duterte invece adesso dice a Xi: riparliamone, “siamo vicini e fratelli di sangue”, e questa almeno è una verità visto che suo nonno era cinese e lui stesso fa parte di quella comunità di 2 milioni e mezzo di migranti che sforna però 7 dei 10 miliardari del paese incoronati da Forbes. Ma al di là del richiamo del sangue è chiaro che è quello dei soldi che fa più gola: quei 24 miliardi di affari messi sul tavolo. Ed è solo l’inizio. Prendiamo l’offerta che vale da sola quasi un quarto della manna promessa: i 3 miliardi di dollari con cui China Railway Group si impegna a costruire i 2mila chilometri della ferrovia da Cagayan de Oro a General Santos. Ecco: questo è oro, appunto, che aspetta solo di essere spolverato. China Railway Group è il gigante che sta già lavorando all’alta velocità Pechino– Shanghai e al supertunnel che collegherà Hong Kong a Guangzhou passando per Shenzhen. La fantascienza che diventa realtà: e genera miliardi. Per la precisione la società ha messo a registro nell’anno 2015 la bellezza di 100 miliardi di dollari. Che sarebbero, a conti fatti, quasi un terzo del Pil di Manila. Sono cifre che farebbero girare la testa a chiunque: figuratevi a uno pronto ad alzarla come Duterte. Citi Research ha calcolato che un miliardo di investimenti, l’equivalente cioè ad appena un terzo della cifra messa sul binario da China Railway Group, farebbe salire il Pil delle Filippine dello 0,8 per cento fino all’8,5 per cento. Per la cronaca, ora si viaggia intorno al 7 per cento: bella cifra su cui però gli economisti hanno già fatto la tara, guardate che questo avveniva prima che arrivasse Duterte, ogni scossone politico può provare scossoni economico- finanziari. Infatti: anche su questo c’è poco da stare allegri. I pasticci per l’Occidente sono pure complicati dalla decisione di mollare il Ttp, cioè l’accordo di alleanza commerciale transpacifica voluto da Obama. Chiunque vinca negli Usa, sia Donald Trump che Hillary Clinton si sono arresi alle sirene dei protezionisti di casa, impedendo il patto tra 12 nazioni che quel Barack “figlio di” (altro copyright di Duterte) aveva disegnato proprio per arginare lo strapotere cinese. 
No, le centinaia di testate nucleari puntate sulle Filippine non promettono niente di buono. La battaglia d’Oriente, appena cominciata, è già perduta?