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 2016  ottobre 01 Sabato calendario

Perché il mestiere di banca è in crisi

E se la Deutsche bank chiudesse? Se gettassero la spugna tutte le grandi banche sistemiche affossate da maxi-multe per casi passati di cattiva gestione, quelle che in talune circostanze hanno truffato la clientela, che sono zavorrate da troppe filiali e un’eccessiva forza lavoro ma non riescono a licenziare, che fanno uso e sono accusate di abuso di derivati e di asimmetria informativa, che stentano a fare profitti perchè i tassi sono troppo bassi e anzi sono costrette a ricapitalizzarsi persino in un bear market? Se non ci fosse stato il fallimento della Lehman brothers, un cataclisma che il mondo non vuole e non può rivivere, la tentazione per le grandi banche di cambiare business model e abbandonare del tutto il mondo del credito sarebbe ora veramente forte.
Di questi tempi, dopo la crisi subprime e la crisi del debito sovrano europeo, il mestiere della banca è tutto in salita: non soltanto sullo sfondo le banche soffrono un serio problema reputazionale, perchè malviste da larga parte di cittadini, imprenditori e politici (in molti casi non a torto, ma generalizzare è pericoloso nel mondo del credito dove la fiducia è tutto). In aggiunta a questo, un insieme di tendenze ed eventi sta ora mettendo il sistema bancario alle corde, con il risultato che il rubinetto del credito tenderà a chiudersi e non ad aprirsi. “Dopo la Grande Crisi le nostre banche sono più solide, hanno 700 miliardi di dollari di capitale in più”, dice il Presidente Obama. In Europa, gli aiuti di Stato durante la crisi sono arrivati, ma a macchia di leopardo (e non in Italia) e anche se complessivamente le banche europee sono più solide, sono meno redditizie e non sempre per colpa di un business model sbagliato.
Un primo fattore che rende la vita difficile alle banche è il mondo dei tassi negativi e soprattutto la curva dei rendimenti piatta. Il differenziale ieri tra i titoli di Stato tedeschi a 2 e 10 anni era di 40 centesimi (tutti sotto zero), contro i 150 punti del 2011 (tutti positivi). È vero che le banche si finanziano adesso a costi di raccolta molto bassi e che il denaro a basso costo aumenta la domanda di prestiti, ma è anche vero che il margine di guadagno sui finanziamenti è ridotto all’osso. In aggiunta, il parcheggio della liquidità a pagamento presso la Bce (-0,40% overnight) crea un costo aggiuntivo per le banche che non possono fare altrettanto con i correntisti e depositanti.
Un altro elemento che grava sull’industria bancaria è quello che viene visto dai più come un eccesso di regolamentazione: come noto, gli uffici dove si assume ora sono quelli della compliance mentre si tagliano i posti sui trading desk. I requisiti prudenziali sono tali da rendere troppo costosa, in termini di assorbimento di capitale, l’attività del proprietary trading e market making. E i tassi sono talmente esigui che neppure in giornate di volatilità la speculazione rende. In tanto ai ratios sulla liquidità fino a un mese, sul breve termine, le norme sono già in vigore e verranno applicate gradualmente fino al gennaio 2018. Comunque non è finita qui. Sono in arrivo almeno due “pacchetti” di nuove regole firmati Basilea. Il primo è un indicatore sulla liquidità nel medio-lungo periodo (net stable funding ratio) che le banche stanno già seguendo a livello di reporting, un coefficiente di equilibrio finanziario con un orizzonte temporale lungo: la Commissione europea dovrebbe recepirlo entro la fine dell’anno, anche se poi la sua proposta sarà valutata ed eventualmente modificata dal Consiglio e dal Parlamento. Il secondo pacchetto, anch’esso già approvato da Basilea, riguarda il trattamento dei rischi di mercato (intesse, cambi, derivati): si tratta della “fundamental review” che guarderà anche ai derivati in maniera più granulare, per richiedere modelli interni più stringenti e rigorosi. Oltre ad accantonare capitale per le perdite inattese, dotandosi di un cuscinetto per eventi futuri, il regolatore si preoccupa ora di ottenere una stima corretta del portafoglio di derivati e di asset a valore attuale, dal quale far partire il calcolo del requisito di capitale.
Infine, il prossimo mese è atteso l’esito dell’esame Srep (supervisory review and evalution) condotto dal Meccanismo unico di supervisione che quest’anno distinguerà due tipi di requisiti: sull’attività ordinaria (con indicazione obbligatoria di esigenze di capitale aggiuntive rispetto al minimo) e sotto stress (con un target ratio di capitale) e una guidance: i due requisiti, vincolante e flessibile, daranno un’indicazione di tempistica diversa.
A tutto questo si sommano, con pressioni al ribasso sulle azioni in Borsa, le multe denominate in miliardi di euro o di dollari e il fardello delle sofferenze e dei crediti incagliati (dove le percentuali sul totale degli asset sono elevate), il passaggio dalla bad bank alla good bank senza perdere la fiducia della clientela.
Le banche, oltre a occuparsi di questo, devono anche continuare a fare il proprio mestiere, quello più tradizionale che è prestare denaro a imprese e famiglie. Al tempo stesso però gli organi di supervisione spingono le banche a ridurre lo strumento classico del prestito bancario per sostituirlo con un’attività più redditizia basata sulle commissioni del capital market (aumenti di capitale per la clientela, Ipos, sindacazioni di bond, private equity, venture capital). Le banche devono a questo riguardo sviluppare nuove professionalità ma intanto sono incoraggiate a disfarsi delle vecchie competenze in filiale: il numero degli sportelli è troppo elevato, l’avanzata dell’home banking impone una rivoluzione e le nuove tecnologie richiedono competenze specializzate e più investimenti.
Senza il credito, l’economia non decolla. Senza istituti di credito, la crescita si ferma. Ma le banche rischiano di essere troppo affaccendate in tutt’altra attività che con il credito ha sempre meno a che fare.