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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

Pensioni, i poveri da giovani resteranno poveri anche da vecchi

I segretari confederali sono giustamente contenti dell’accordo sulle pensioni appena raggiunto con il governo, per un impegno di spesa complessivo pari a sei miliardi di euro in tre anni. Hanno, infatti, ottenuto benefici per una delle categorie, forse la più numerosa, che rappresentano, appunto i pensionati. Mi sembra tuttavia eccessivo affermare, come ha fatto la segretaria della Cisl, che l’accordo abbia fatto avanzare l’equità. Può valere per l’abolizione del costo dei ricongiungimenti contributivi, un balzello odioso in un epoca di contratti di lavoro discontinui, modifiche aziendali, e un sistema pensionistico diventato contributivo. Si può parlare in senso lato di equità anche per l’accordo raggiunto sui lavoratori precoci, sugli occupati nei lavori usuranti e sui disoccupati anziani senza ammortizzatori sociali. Bisognerà poi seguire con attenzione quali occupazioni sono ritenute usuranti, per farvi rientrare anche alcuni lavori di cura. Va in direzione dell’equità anche tenere in considerazione non solo il reddito, ma la presenza di intense responsabilità di cura, ai fini della eliminazione o riduzione del costo, in termini di ammontare della pensione, dell’uscita anticipata (Ape). Ma già qui sorgono questioni di equità tra pensionandi. L’accordo prevede una soglia di reddito pensionistico – ancora oggetto di negoziazione – al di sotto della quale il prestito che dovrebbe finanziare l’anticipo sarebbe totalmente a carico del bilancio pubblico, laddove al di sopra costerebbe circa il 25% della pensione futura. Si tratta di uno scarto enorme, che produrrebbe forti disuguaglianze tra pensionandi con una storia contributiva molto simile nella possibilità di ricorrere all’Ape, vuoi nella pensione effettivamente fruita. Non sarebbe più equo, una volta che si preveda un sostegno pubblico, modularlo in modo progressivo, in modo da evitare salti bruschi forieri di ingiustizia? Ci si può chiedere, inoltre, perché si tenga conto solo del reddito pensionistico e non anche di altri eventuali redditi e della ricchezza e perché solo a livello individuale e non famigliare, come avviene, per il solo reddito, per le pensioni sociali. Integrare il basso reddito di pensionati con fondi pubblici è, in effetti, una forma di assistenza e come tale dovrebbe seguire criteri univoci, in nome del principio di uguaglianza. La stessa critica può essere rivolta all’accordo sulla maggiorazione ed estensione della quattordicesima. Anche in questo caso, si parla di soglie di reddito individuale, senza alcun riferimento alla ricchezza e tanto meno all’Isee, che tiene conto sia del reddito, sia della ricchezza famigliari, non individuali, oltre che dell’ampiezza della famiglia. Non si capisce che cosa ci sia di equo nell’utilizzare criteri di valutazione economica diversi per definire l’accesso ad un sostegno assistenziale a seconda della categoria di appartenenza. Ricordo che degli oltre quattro milioni e mezzo di poveri assoluti nel nostro paese poco più di cinquecentomila sono anziani, oltre due milioni sono o minori, o giovani fino ai 34 anni, gli altri adulti tra i 34 e i 64 anni (spesso genitori di minori e giovani). A tutti costoro, quattro milioni di persone, lo Stato dedica molte meno risorse e con criteri così stringenti da risultare escludenti, oltre che un po’ umilianti. Sono assolutamente d’accordo che chi è anziano dovrebbe avere diritto ad una pensione dignitosa, a prescindere dalla sua storia lavorativa e contributiva. In alcuni paesi – Olanda, Svezia, ad esempio esiste da tempo una pensione di base di cittadinanza, cui si aggiunge quella contributiva. Invece di procedere con decisioni frammentate e incoerenti che rischiano di produrre ingiustizie e contro-distribuzioni non sarebbe il tempo di ragionare in questa direzione anche in Italia? Questo sì configurerebbe un sostegno anche, soprattutto, per le giovani generazioni, oggi esposte al rischio di essere povere sia da giovani, sia da vecchie.