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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

Simeone Jr., quando il figlio vuole battere il padre con un pallone tra i piedi

«Vede, signore, con tutto il rispetto, se lei oggi è venuto fin qui per intervistarmi è soprattutto perché sono figlio di Diego Simeone, e a me questo va bene fino a un certo punto. Di mio padre sono fiero, lui è il mio sangue, la mia guida. Però, dica la verità, mica andrà a intervistare tutti i ragazzi che segnano un gol: prima o poi, un gol lo fanno tutti. Ecco, io questo voglio: voglio essere Giovanni Simeone, Giovanni e niente più». Cholito non esiste. È una definizione suggestiva e comoda, è un’ombra da scartare, un pallone da buttare in porta con un tiro improvviso e cattivo come quello con cui domenica ha fatto secco il suo compaesano Bizzarri e ha permesso al Genoa di andare avanti contro il Pescara, anche se poi è finita pari. Ieri pomeriggio, poco prima che il ragazzo mettesse le cose in chiaro, era passato il suo allenatore Ivan Juric: «Gio’ deve imparare ancora un mucchio di cose ma farà strada perché, oltre ai piedi e all’umiltà, ha la rabbia vera». C’è dentro un po’ tutto, in questa storia: gol, sogni, rivincite, nostalgie, musica, tecnologia, e molto Freud.
Lei ha un padre importante, Giovanni. E probabilmente ha ragione.
«Non è facile convivere con la sua grandezza. Ecco perché diventerò più forte di lui. Devo provarci, devo dimostrare che, se sono qui, è solo per merito mio. Poi sarà quel che sarà».
Seconda e ultima domanda su papà: cosa ha preso da lui, cosa no.
«La garra, che è il modo nostro argentino di definire la determinazione, la cocciutaggine, la rabbia. Papà è un maestro ancora oggi. Avete visto l’altra sera in Champions contro il Bayern? Un capopopolo. Lui, la squadra, lo stadio: una cosa unica. È magia, quella, non è calcio».
Il suo allenatore sostiene che lei deve crescere. In cosa?
«Spalle alla porta. Pavoletti lì è un maestro».
A proposito. Quando rientra Pavo, lei torna in panca.
«Facile. Ma vedrete che farò di tutto per sfruttare la prossima occasione. La concentrazione è decisiva. E io ho i miei segreti».
Tipo?
«Brain training. Diciamo che è una specie di videogioco che aiuta a migliorare attenzione e rapidità di pensiero. Con il mio iPad prima della partita mi metto lì mezz’ora. Da quando l’ho scoperto sono un altro giocatore».
Lei è attivissimo sui social network.
«Sì: Facebook, Twitter, Instagram. Sono utili ma essendo potentissimi vanno adoperati con intelligenza. Il web aiuta ma serve attenzione: è pieno di errori. Ad esempio: su Wikipedia c’è scritto che sono nato a Madrid, invece di Buenos Aires. Non è grave, però significa che non bisogna fidarsi del tutto, no?».
Da bambino era sempre in viaggio. Come è stato?
«Molto duro. Ho ricordi di Milano, la scuola cattolica. A Roma ero più grandicello, vivevamo all’Olgiata. Su Facebook ho ritrovato gli amici di allora. Uno di loro, Emanuele, è morto qualche tempo fa: oggi gioco anche per lui. Comunque per me viaggiare è un’avventura: adoro Genova, vivo ad Arenzano. Questo è un posto magnifico: la città vecchia, Portofino, Boccadasse. La pasta al pesto la mangiavo anche quando vivevo in Argentina. Pensi che la nonna di mia mamma era ligure. Alla fine sono un po’ tornato a casa».
Sa chi è De Andrè?
«Mi hanno detto che era un grandissimo cantautore, una specie di poeta, che nelle sue canzoni raccontava la gente semplice. E che era tifoso del Genoa».
È religioso?
«Moderatamente. Mi piace molto il nostro papa Francesco, la chiesa deve essere vicino alla gente. Lui lo è».
A 21 anni avrà molti obiettivi professionali, ne scelga uno.
«Giocare nella Selecciòn deve essere una magia unica, ma io scelgo la Champions: a 14 anni mi sono tatuato il logo sul braccio. Papà si arrabbiò moltissimo».
Stavolta il babbo l’ha tirato fuori lei.
«Già. Papà è sempre papà».