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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

Reportage dal carcere di Pianosa

 I calcinacci a terra, le pareti scrostate, le porte blindate arrugginite sono l’immagine del tempo trascorso. Come la sterpaglia che assedia i muri di cinta e i cortili interni. Ma entrare dentro le celle dell’ex carcere di Pianosa, che ha ospitato i più pericolosi nemici delle istituzioni, desta ancora un senso d’inquietudine e angoscia per le due guerre combattute dallo Stato contro terrorismo e mafia. Anche attraverso questo quasi-lager.
È chiuso da vent’anni, e venti anni prima, 1977, la piccola isola alle spalle dell’Elba fu trasformata da colonia penale a penitenziario di massima sicurezza. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa – che dopo aver contrastato la prima generazione di brigatisti rossi fu addetto alla protezione esterna delle prigioni italiane, poi richiamato all’antiterrorismo e infine assassinato da killer mafiosi – fece erigere un muro per isolare detenuti e secondini dal resto dell’isola: un chilometro e mezzo di cemento armato ancora in piedi nonostante sia una creatura del secolo scorso come il muro di Berlino.
Dietro quella barriera, che raddoppiò quella intitolata a Vittorio Emanuele tanti anni prima, fra strade sterrate, uliveti e arbusti si arriva alla sezione Agrippa, uno dei cinque edifici che ospitavano i reclusi. È qui che fu istituito il girone dei dannati. Mentre nelle metropoli si sparava quasi ogni giorno, i capi delle Brigate rosse e bande armate simili (da Alberto Franceschini a Roberto Ognibene, passando per Giorgio Semeria e altri) furono chiusi in queste celle di cinque metri per quattro con tre brande fissate al pavimento, una panca e uno stipetto murato, uno sgabuzzino con il water. Costretti a vivere 23 ore al giorno dietro la porta blindata affacciata da un lato sul corridoio e dall’altro sul cortile del passeggio: 15 passi per 10, con una grata che mostrava il cielo a scacchi anche durante l’ora d’aria quotidiana.
All’Asinara c’erano condizioni simili, e i brigatisti in libertà provarono a organizzare un’evasione; qui non l’hanno nemmeno immaginata. Poi arrivarono i camorristi più feroci, fino all’esaurimento degli «anni di piombo», seconda metà degli Ottanta. Pianosa tornò a essere un’isola quasi normale, Agrippa non fu più sinonimo di isolamento e «carcere duro». Ma nel 1992 le bombe mafiose fecero calare la seconda notte della Repubblica, e lo Stato replicò la sua reazione: la strage di Capaci provocò la decisione, l’eccidio di via D’Amelio fece scattare la traduzione di decine di boss. L’allora ministro Claudio Martelli firmò l’ordine sul cofano della sua macchina, la notte del 19 luglio, dopo aver reso omaggio al cadavere straziato di Paolo Borsellino.
Capimafia del calibro di Michele Greco, Pippo Calò e Giuseppe Madonia si ritrovarono dal cosiddetto «grand hotel Ucciardone» ai patimenti di Pianosa, codificati dall’articolo «41 bis» dell’ordinamento penitenziario e reso ancora più aspro da una prassi già sperimentata coi terroristi. Al punto da innescare nuovi «pentimenti» tra chi non riuscì a sopportare il nuovo regime: dal killer mafioso Pino Marchese, che in pochi mesi fornì la traccia per individuare gli assassini di Giovanni Falcone, al camorrista Carmine Alfieri, che parlò dei rapporti con l’alta politica. Disposti a tradire ogni legame pur di non rimanere su quest’isola di cemento armato.
Insieme ai grandi latitanti caduti in trappola, da Leoluca Bagarella a Nitto Santapaola, cominciarono ad arrivare le denunce di Amnesty international e pure le minacce. Come quella recapitata nel 1993, prima delle bombe di Firenze, Roma e Milano, da sedicenti familiari di detenuti che lamentavano maltrattamenti e vessazioni. È uno dei capitoli della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, in cui fu prevista – nella ricostruzione dell’accusa – anche la chiusura del super-carcere toscano. Arrivata nel ‘97, quando fu svuotata l’ultima cella e Cosa nostra aveva già cambiato strategia.
Da allora la sezione Agrippa è rimasta un monumento alla repressione delle sfide più gravi subite dalla Repubblica italiana. Abbandonato a se stesso. Mentre ha ripreso vita la diramazione Sambonello, dove negli anni Trenta il regime fascista confinò Sandro Pertini, che oggi ospita una ventina di detenuti sbarcati dalla prigione di Porto Azzurro, che qui trascorrono il loro periodo di lavoro esterno: condannati che curano gli orti e i campi, in un progetto di reinserimento sociale che dovrebbe incrementarsi con il sostegno del ministro della Giustizia Andrea Orlando. «Qui è stato scritto un pezzo importante della storia criminale del Paese, e da qui adesso può partire un importante percorso di riscatto», ha detto l’altro giorno il Guardasigilli visitando Pianosa. Divenuta un Parco naturale, con turisti a numero chiuso obbligati a oltrepassare il «muro dalla Chiesa» prima di immergersi nella natura un tempo destinata a inghiottire i reclusi più reietti, oggi integralmente restituita alla sua bellezza. E con le stradine dell’antico borgo intitolate alle vittime di mafia.