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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

L’Isis per le sue esecuzioni s’ispira a Hollywood

Un uomo con una tuta arancione. È in ginocchio. Sta per essere giustiziato. Il «solito» video del terrore? Sbagliato. È la scena finale di «Seven» dove Kevin Spacey aspetta con il sorriso beffardo che Brad Pitt gli spari: così si chiude il suo piano, era quello che voleva, l’ultimo capitolo (l’Ira) della catena di delitti ispirati ai vizi capitali.
In Occidente è stata solo una scena di un thriller, per certo Oriente una fonte di ispirazione, una messa in scena – scioccante e a effetto allo stesso tempo – per impressionare il pubblico.
«Terror Studios: la propaganda dell’Isis» è il documentario firmato dal regista francese Alexis Marant che verrà trasmesso sul canale Nove domenica 2 ottobre alle 21.15 con un commento di Roberto Saviano. Il cuore del film sta nell’analisi della strategia di comunicazione dell’Isis.
Il regista, infatti, racconta come sia proprio la cultura pop occidentale la principale fonte d’ispirazione di chi, all’interno dell’organizzazione jihadista, ha il compito di diffondere il consenso, di reclutare giovani soldati, ma anche di conquistare chilometri quadrati di «immaginario del terrore». Del resto molti combattenti sono cresciuti imbevuti di quello stesso immaginario che ora vogliono fare a pezzi.
Il documentario è un ping pong, un confronto tra i video di propaganda dell’Isis e le loro fonti di ispirazione. Se «Seven» è il riferimento più datato, non mancano ammiccamenti a film horror come «Saw – L’enigmista» o a film di guerra come «The Hurt Locker» che vengono utilizzati come modello.
Ma la similitudine si ritrova anche nel rito superficiale di reality come «Survivor», in cui il contrasto più evidente è nell’abbigliamento: da una parte un gruppo di spiaggiati in costume ma incolonnati come soldati in attesa, dall’altra i f oreign fighters in assetto di guerra ma in fila allo stesso modo. Se da una parte la prova a cui sono sottoposti con rito marziale è cogliere un cocco, dall’altra è tagliare la gola a un infedele, con i coltelli che vengono ripresi in slow motion come succede nel reality per enfatizzare il momento clou.
Ma anche i videogiochi sono un punto di riferimento con le immagini in go pro come se ci trovassimo a giocare a «Call of Duty» oppure con plagi evidenti di «Assassin’s Creed» e «Grand Theft Auto».
Più di 40 media locali, oltre 1.000 contenuti ogni mese, cinque case di produzione, quasi 50 mila account Twitter. Sono solo alcuni dei numeri della macchina di propaganda dell’Isis.
Una comunicazione articolata e «accattivante», simile al palinsesto di una rete televisiva generalista che si diffonde capillarmente attraverso il web.
Scene di battaglia, esplosioni, esecuzioni e decapitazioni riproducono quasi fedelmente la nostra memoria collettiva hollywoodiana in un’escalation dove nulla è lasciato al caso: sceneggiatura, inquadrature, interpretazioni, audio e grafiche.
È un immaginario eroico e avventuroso, un vero e proprio storytelling dell’orrore per raggiungere il massimo impatto e che i media occidentali amplificano loro malgrado, perché succede che quello che è nato ad Hollywood lì ritorna.
Basta guardare «House of Cards».
In una scena della quinta stagione si parla di lotta al terrorismo e il presidente americano Kevin Spacey è costretto a guardare un’esecuzione: un uomo con la tuta arancione, in ginocchio, sta per essere giustiziato.
Prima la fiction che diventa realtà, quindi la realtà che torna a essere nuovamente fiction.